martedì 23 febbraio 2016
Balie, la «via del latte» dall’Italia all’Egitto
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«Donne che, appena partorito, lasciavano i nati, e col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i figli delle anemiche inglesi, stabilitesi nel paese dei Faraoni». Con queste parole, in un saggio del 1905, viene descritta l’avventura di tante italiane che hanno scritto una pagina pressoché sconosciuta dell’epopea migratoria sviluppatasi nella seconda metà del XIX secolo. L’Egitto ha rappresentato per molti anni la meta di un flusso migratorio femminile partito da zone rurali di collina e di montagna di molte regioni, in particolare Calabria, Basilicata, Friuli e Venezia Giulia. Un potente polo di attrazione per le nostre migranti era rappresentato dai cantieri che vennero aperti per la costruzione del Canale di Suez, avviata nel 1864 e conclusa nel 1869. La presenza di tecnici e personale – inglesi, ma non solo – con relative famiglie al seguito si era trasformata in breve tempo in una «calamita occupazionale » per molte nostre giovani connazionali: «Ragazze calabresi, scelte in base alla loro ottima salute, ai tempi dei lavori del canale di Suez, da Marcellinara, Miglierina, Tiriolo e Nicastro, paesi dove si trovano le più belle donne della Calabria e dove le contadine vestono un costume fantastico che suscita illusioni di bellezza, si recavano ad Alessandria d’Egitto a prestare servizio di baliatico presso le famiglie dei tecnici inglesi addetti ai lavori dell’istmo di Suez». Il baliatico, l’allattamento dietro compenso di figli altrui, è una consuetudine che nel nostro Paese si è protratta per molti secoli fino alla sua scomparsa a metà del Novecento, quando le mutate condizioni di vita, il calo della natalità e la possibilità dell’allattamento artificiale portano le madri ad occuparsi direttamente dei propri figli. Antonio Cortese, ex direttore centrale dell’Istat, ha ricostruito – in un saggio di prossima pubblicazione sul numero 53 della rivista Altreitalie – le dinamiche migratorie di tante donne che hanno lasciato il nostro Paese per prestare servizio in famiglie altolocate, soprattutto inglesi, trapiantate in Egitto nel XIX secolo. «Il salario delle balie era due o tre volte superiore a quello del personale domestico femminile meno qualificato, perciò rappresentava una fonte di guadagno molto appetibile, oltre che la possibilità di sostenere economicamente le famiglie di origine – spiega Cortese –. Le balie da latte possono essere considerate la fascia privilegiata di lavoro migrante, almeno per quanto riguarda salari e status all’interno della famiglia che le ospitava. Né si può dimenticare d’altra parte il trauma rappresentato dalla necessità di lasciare a casa il figlio appena nato per nutrire con il proprio latte i figli altrui». Ma non troviamo solo balie tra queste «italiane d’Egitto», che nell’Ottocento fecero il percorso inverso rispetto a quello intrapreso negli ultimi decenni da tante donne egiziane immigrate in Italia a seguito dei mariti. Nelle ricche famiglie inglesi e francesi che si erano insediate al Cairo – ma soprattutto ad Alessandria, a quei tempi considerata la New York del Mediterraneo, città cosmopolita e aperta a svariati influssi culturali – troviamo italiane impiegate come governanti, cameriere, cuoche, bambinaie, sarte. È il lavoro domestico nelle sue diverse articolazioni la principale calamita per queste donne, e la destinazione della loro avventura migratoria trovò una significativa espressione metaforica nel termine «alessandrine » con cui vennero soprannominate le italiane partite per la metropoli egiziana. Nel 1820 la presenza di nostri connazionali in Egitto si attesta attorno alle seimila persone, per crescere notevolmente negli anni seguenti, anche a motivo dell’apertura del cantiere di Suez, nel quale furono chiamate a lavorare anche maestranze italiane. Il primo censimento ufficiale della popolazione, realizzato nel 1882, registra 18.665 connazionali. È dello stesso anno l’imposizione del protettorato britannico che porta a una progressiva emarginazione di tecnici e amministratori italiani e a un processo di erosione dell’italiano, che negli anni centrali del XIX secolo era diventato la lingua franca del Paese. La presenza di nostri connazionali continuò peraltro ad aumentare: nel 1903 i registri consolari dei passaporti di Alessandria evidenziano un saldo positivo tra arrivi e partenze relativamente alle «donne attendenti alle cure domestiche», categoria che comprendeva ovviamente anche le balie.  L’altro grande polo di attrazione per le balie nostrane nella seconda metà del’Ottocento fu la Francia meridionale, meta privilegiata da tante «migranti temporanee» per ragioni di vicinanza e quindi di economicità del viaggio. In alcuni casi il baliatico diventa un’occasione di impiego in un’ottica che oggi potremmo chiamare di «riconversione occupazionale». Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento migliaia di donne italiane trovano posto nel settore tessile transalpino, in particolare nei distretti della lavorazione della lana e del cotone. Ma per molte di loro il matrimonio, e più ancora la gravidanza, costituiscono la fine dell’esperienza lavorativa: non sono rari i casi di imprenditori che inseriscono nel contratto una clausola con la quale la lavoratrice si impegna a non rimanere incinta, pena il licenziamento.  A volte, però, il concepimento di un figlio può rappresentare l’anticamera di una nuova esperienza lavorativa: quella del baliatico. Le vicende umane delle balie italiane all’estero sono uno dei capitoli ancora poco esplorati dell’emigrazione femminile italiana, che pure rappresenta un aspetto importante del grande movimento in uscita che ha accompagnato per decenni la storia del nostro Paese. Tra il 1876 e il 1915 sono espatriate dall’Italia 14 milioni di persone, tra cui 2 milioni 600mila donne. Le partenze più massicce in questo lasso di tempo avvennero da Veneto e FriuliVenezia Giulia (470mila), Campania (380mi-la), Sicilia (369mila), Piemonte e Valle d’Aosta (300mila).  Nei primi tempi la componente femminile si aggira attorno al 20% del totale, per crescere successivamente fino a raggiungere un picco del 27% nel 1888. Dietro questi numeri sta probabilmente una realtà leggermente diversa: le donne partivano in misura maggiore per rimanere; molti invece furono gli uomini che varcarono i confini e fecero la spola da una sponda all’altra dell’Atlantico, e di conseguenza essi compaiono più volte nelle statistiche degli espatri.
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