mercoledì 28 novembre 2018
Triste storia, quella dei ragazzi dei Parioli tutti droga e sesso. È la serie di Netflix, stereotipata e priva di giudizi morali. Il critico Giorgio Simonelli: «Un manierismo violento»
Una scena di “Baby”, la serie televisiva diretta da Andrea De Sica e Anna Negri

Una scena di “Baby”, la serie televisiva diretta da Andrea De Sica e Anna Negri

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Non è stato facile per chi scrive arrivare alla fine della proiezione (riservata alla stampa) delle prime due puntate di Baby senza provare un senso di ribellione. Non tanto perché la nuova serie disponibile su Netflix da venerdì 30 novembre (prodotta da Fabula Pictures e diretta da Andrea De Sica e Anna Negri) ha preso spunto dagli sconvolgenti fatti accaduti a Roma qualche anno fa e battezzati dai giornali come il caso delle baby squillo dei Parioli. Quello che proprio non ha convinto la sottoscritta, non solo come giornalista ma soprattutto come madre di un figlio adolescente, è stata la voluta parzialità del racconto. Di una storia che, forse, si proponeva di raccontare gli adolescenti di oggi e che invece ha finito per tracciarne un ritratto assolutamente incompleto, in certi momenti persino fastidioso.

La storia di Baby si svolge ai Parioli: «Se hai sedici anni e vivi nel quartiere più bello di Roma sei fortunata» dice Chiara (Benedetta Porcaroli), una delle giovani protagoniste della serie all’inizio della prima puntata. Ma bastano pochi minuti per capire che quella fortuna è solo illusoria: la ragazzina, come tutti i coetanei della prestigiosa scuola che frequenta, è sola. Terribilmente sola, figlia di una famiglia in decomposizione nella quale i genitori si dichiarano separati in casa («Lo facciamo per te»), salvo fare ciascuno i propri comodi, a volte proprio sotto lo sguardo sconcertato della figlia. Non va meglio ai suoi amici, che poi tanto amici non sono visto che il valore dell’amicizia qui non è nemmeno abbozzato, come del resto qualsiasi altro valore: Ludovica (Alice Pagani) vive con una madre fragile e instabile che con la figlia condivide lo smalto, le cene con i fidanzati di passaggio e poco altro; e Damiano (Riccardo Mandolini) è cresciuto nella periferia romana del Quarticciolo ma, a causa della morte della madre, è costretto a vivere ai Parioli con il padre ambasciatore e la di lui moglie, lacerato tra due mondi diametralmente opposti nei qua- li fa fatica a riconoscersi. In questa riproduzione (volutamente?) stereotipata, dove non c’è nemmeno un solo personaggio positivo, non mancano naturalmente il sesso facile per sfuggire alla noia, che non richiede alcun coinvolgimento affettivo ed emotivo; la droga altrettanto facile visto che a scuola si spacciano canne e cocaina; i locali da frequentare fino a notte fonda.

E, dulcis in fundo, la prostituzione. Il teorema alla base di Baby è, tutto sommato, chiaro e, per certi versi, persino condivisibile: se hai sedici anni e una famiglia che non si occupa di te se non in apparenza, il rischio è quello di diventare un adolescente sbandato alla mercé del primo disgraziato che passa. Un paio di cose, però, non convincono. La prima è, come dicevamo, la parzialità del racconto: il mondo degli adolescenti è, per fortuna, più ricco e variegato di quello proposto da Baby ma la serie non lo mostra, dando l’impressione che i sedicare dicenni di oggi, almeno quelli benestanti e abitanti in una grande città, siano tutti così. La seconda è che non c’è traccia di un benché minimo giudizio su comportamenti francamente discutibili. Nessuno ha particolari nostalgie della tv pedagogica di un tempo ma è inaccettabile sentir dire dagli autori di Babyche «il nostro primo obiettivo è stato quello di non giu- i personaggi» o che «non vogliamo filtri paternalistici o moralistici. Sarà il pubblico a trarne le conseguenze » davanti a ragazzini e ragazzine che si drogano e considerano il sesso poco più di un passatempo perché significa non riconoscere la responsabilità che ci si assume quando si fa televisione.

Soprattutto una televisione come Netflix che ha nel suo Dna proprio il pubblico giovane. Autori e protagonisti di Baby da questo orecchio, però, non ci sentono: «Questa serie ha l’obiettivo di mettere il pubblico in condizione di farsi delle domande e non di trovare le risposte » ribadisce Benedetta Porcaroli mentre Isabella Aguilar si spinge a generalizzare: «In questa serie abbiamo messo anche tanto di noi, delle nostre esperienze personali. Siamo stati tutti sedicenni allo stesso modo. Non c’è nichilismo né denuncia sociale ». Se non è nichilismo Baby c’è da chiedersi cosa lo sia.




SIMONELLI: «UN MANIERISMO VIOLENTO».

Raggiungiamo Giorgio Simonelli, storico della televisione e della radio, a Madrid.

Pertanto prima di affrontare con l’esperto l’argomento Babyuna curiosità: ma in Spagna come stanno messi con le serie tv?
«È una televisione molto particolare, quella spagnola. Le serie più seguite sono indubbiamente quelle di Netflix. Poi ci sono i due canali di Stato che trasmettono molti documentari e curano bene il cinema, con presentazioni serie e professionali prima del film come un tempo faceva anche la Rai. Poi però scivola nel trash con Telecinco (Mediaset di Spagna) che tutte le sante sere manda in onda il “Grande fratello vip”».

Chiusa la parentesi iberica, veniamo alla serie “incriminata”: che rischi comporta la visione di una realtà nuda e cruda come quella delle babysquillo romane?
«I rischi non sono sul breve periodo: se un giovane vede in tv una scena di prostituzione del proprio coetaneo, non credo che il giorno dopo scatti l’emulazione forzata. Il problema è un altro: in questo tipo di serie la devianza ormai è trattata come la normalità. E per catturare sempre più ampie fette di pubblico si tende ad esagerare, a deformare la realtà a uso e consumo dello show televisivo».

Possiamo parlare di “effetto Gomorra”?
«Non saremmo i primi. Mi pare che Michele Serra in una delle sue “Amaca” (rubrica di “La Repubblica”) ha scritto di una serialità al sangue. La violenza è trattata con “manierismo” registico, allo scopo di convincere il pubblico che il mondo – specie quello periferico – sia solo questo, a senso unico, esclusivamente abitato dal male e da cattivi. È una visione ovviamente distorta».

In Baby la gioventù pariolina sembra condannata per sempre a vivere nella propria lussuosa e lussuriosa realtà.
«È un tema sul quale questa serie mi pare non aggiunga molto a quanto aveva già detto François Ozon con Giovane e bella. Ma quello era un capolavoro, un film-verità oltre che d’autore. In Baby invece partendo da uno spunto di cronaca hanno la presunzione di raccontarci la verità, ma il più delle volte non è così. Si sta facendo fiction, quindi finzione anche della verità».

C’è un limite stilistico oltre che di contenuto?
«Le serie italiane funzionano quando nobilitano la nostra tradizione, anche letteraria. In questo Montalbano credo sia il prodotto più apprezzato in tal senso. Gli italiani devono fare gli italiani nel confezionare una buona serie tv e non scimmiottare gli americani alzando i toni e la posta in palio... E poi resto convinto che la moda della serialità sia destinata all’estinzione».

Ne è davvero convinto, professor Simonelli?
«Lo dicono i fatti. Fino a cinque anni fa se non avevi visto Dr. House eri tagliato fuori dal dibattito, anche da quello a tavola con i famigliari. Oggi chi si ricorda più di quella serie? La tv trita la serialità e la spazza via in fretta. Anche il miglior prodotto non dura più di cinque anni, poi viene cancellato dalla memoria collettiva del pubblico televisivo

Massimiliano Castellani

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