venerdì 21 marzo 2014
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La hostess non si limita a controllare la mia carta d’imbarco. Senza dire una parola, curiosamente mi accompagna fino al posto in business class. È una forma di cortesia vagamente incomprensibile. Poi, di colpo, capisco. Subito dietro la mia poltrona, è sta­to creato uno spazio privo di sedili. Li hanno ri­mossi. Sul pavimento, è adagiata una cassa verticale, avvolta in una bandiera del Brasile, dai classici colori verde e oro. La hostess sta piangendo. Fatica a trovare le parole. Sa, mi sussurra, non ce la sentivamo proprio di rispettare le norme di viaggio. Non potevamo riportarlo a casa chiuso nella stiva, un bagaglio tra altri bagagli. Lui, no. Ayrton, no. È tutto surreale. Anzi, no, incredibile. Ma dove è finita la realtà che conoscevamo, fino a pochissimi gior­ni fa? È martedì 3 maggio 1994. Sono le sette della sera. Siamo all’aeroporto Charles De Gaulle, a Parigi. Mi sono appena im­barcato su un volo della compagnia Varig, un simbolo per l’in­tera nazione brasiliana. Ci aspettano a San Paolo. 

[...] La morte in pista di Ayrton Senna, nel giorno della festa del la­voro, mi ha devastato a livello emotivo. Non era, il pilota bra­siliano, semplicemente un personaggio del quale professio­nalmente mi occupavo, scrivendo le cronache della Formula Uno. Avevo imparato a conoscerlo e a volergli bene, pure quan­do si era comportato, in pista, in un modo che non potevo dav­vero condividere.[...] Quel 2 maggio, mentre si stanno scatenando le polemiche più aspre sulle cause dell’incidente, decido di fare un salto all’obi­torio. Nessuno sa quando il corpo di Senna potrà lasciare l’o­bitorio di Bologna. Ci sono complicazioni burocratiche, fac­cende tecniche da sbrigare, eccetera. Però la materia è talmente incandescente che finisce sul tavolo dei presidenti delle re­pubbliche di Italia e Brasile. Nel primo pomeriggio, la salma viene caricata sul velivolo. La rotta prevede l’atterraggio a Parigi, dove la bara verrà sistema­ta nella stiva dell’aereo della Varig, destinazione finale San Pao­lo. Ma il comandante della Varig, quando viene informato, ha una reazione virulenta. È di San Paolo anche lui, anche il co­mandante. Non ha conosciuto personalmente Ayrton. In com­penso, il pilota è l’idolo dei suoi figli. Non potrebbe mai rac­contare ai bambini che ha sistemato Senna, ciò che resta di lui, tra le valigie. Il pilota, stavolta dell’aereo, ha sempre diritto all’ultima deci­sione. Vale anche sull’asfalto della Formula Uno. Al diavolo le regole. Ayrton, che per le traversate intercontinentali utilizza­va soltanto la Varig, avrà diritto ad un posto da passeggero. E se qualcuno ha qualcosa da obiettare, si faccia avanti. Non si farà avanti nessuno. Il destino vuole che tocchi a me occupare la poltrona davanti alla bara, davanti a quella bandiera verdeoro che avvolge il li­gneo contenitore di un corpo che non respira più, non si muo­ve più, non è più tra noi. [...] E insomma, Ayrton, adesso abbiamo all’incirca dodici ore di viaggio da spendere insieme. Una veglia funebre a diecimila me­tri di quota. La gente che si alza dai sedili, passa accanto alla bara, la sfiora. Non ci sono scene di isterismo. Prevale una com­posta, ordinata consapevolezza. Ogni tanto rimbalza l’eco di un singhiozzo. Ma dell’aereo si è impadronito il silenzio. Asso­luto. Infrangibile. Non filtra un sussurro. Non si capta un bi­sbiglio. Ah, Senna. Adesso ho capito, mentre sullo schermo il compu­ter di rotta indica che ci stiamo definitivamente allontanando dall’Europa. Ho capito, sai: stiamo tutti pregando per te. Pre­ga chi crede in Dio, come ci credevi tu, che non avvertivi alcun disagio nel testimoniare la fede in Gesù Cristo, sebbene spes­so i tuoi sentimenti religiosi ti esponessero alle facili ironie di tanti. Ma prega, laicamente, anche chi non crede nella vita e­terna: ti portano nel cuore, fossero o meno appassionati di au­tomobilismo, di Formula Uno. Immagino te ne fossi accorto. Attraverso gli anni, la tua popo-­larità aveva valicato i confini di settore. Non eri ’soltanto’ un pi­lota, un grande pilota. Sei stato capace di trasmettere a chi ti guardava la tua idea della competizione, d’accordo, ma anche dell’esistenza. Alcuni sostengono che ci hai ’giocato’ sopra, perché in una epoca di sponsor, televisioni eccetera, insom­ma, acquisire una notorietà vastissima consente di moltipli­care gli incassi, gli introiti, i guadagni. Boh. A me invece sembri sincero. Non mi hai dato l’impres­sione di speculare. Non sono d’accordo con quanti, dopo quello che è appena successo, hanno preso a descriverti co­me un santo. Non lo sei. Non hai mai preteso di esserlo. An­ni dopo, non sarò d’accordo nemmeno con la canzone che Lucio Dalla ti dedicherà. Carina, per carità. Ma farti dire che per te non ci sarebbe stata differenza tra un piazzamento e un primo posto era, onestamente, una mostruosa mistifica­zione.  Tu, pur di vincere in macchina, avresti asfaltato persi­no tua sorella! Giusto a proposito di mistificazioni, ad esempio ulteriore, c’è quella faccenda del tuo patriottismo, adesso sublimato dal vessillo verde oro che avvolge la cassa. Dopo ogni vittoria, hai sventolato la bandiera nazionale brasiliana. Cos’è, orgoglio sciovinista? Necessità di prevalere, sul terreno dell’immagi­ne, nell’eterno conflitto con Nelson Piquet, lui carioca di Rio, tu paulista, agli occhi di un popolo che si divide nel tifo, o di qua o di là? La risposta che dai, quando ne parliamo una volta che siamo in macchina con tuo padre Milton, è un invito ad aprire gli oc­chi sulla realtà del tuo paese. Vedi, mi dici, il Brasile è uno spec­chio del grande difetto del pianeta, del male del mondo. Nella mia terra, i ricchi sono ricchissimi e i poveri sono poverissimi. Non esiste, mi spieghi, una via di mezzo, il cosiddetto ceto me­dio è debolissimo. Io, Ayrton Senna, appartengo alla Casta e ne sono consapevole, vengo da una famiglia che non ha mai a­vuto problemi di sussistenza. Ho que­sta grande fortuna e ne sono lieto, però proprio per questo ho il dovere di non dimenti­care le masse sterminate delle fa- velas, i disperati che abitano le baracche a poche centinaia di metri dalle residenze lussuosissime. Quando prendo la ban­diera verde oro, la mostro per chi non ha niente, per chi è or­goglioso di essere brasiliano ma sogna e immagina un futuro differente, lontano dalla miseria, dalla angoscia, dalla assenza di qualunque speranza… A me sembra un discorso, come dire, che ha lo spessore di un pro­gramma politico. Di un progetto per una carriera da ministro, da go­vernatore, da presidente addirittura. Te lo dico e ti metti a ridere, no, per carità, in politica mai, uso parte dei miei soldi per aiutare gli e­marginati e i ghettizzati e continuerò a farlo anche una volta appeso al chiodo il volante, però non entrerò mai nel Palazzo, è l’intera società brasiliana che deve cambiare profondamente, è un mutamento al qua­le ognuno deve contribuire e nessuno può sentirsi estraneo. [...] L’aereo della Varig poggia le sue ruote sulla pista di Guaraulhos, il gi­gantesco scalo di San Paolo.

 

 La bara viene calata dal portellone cen­trale. Ad accoglierla, sull’attenti, ci sono i soldati. Il resto è ancora più coinvolgente e sconvolgente. Perché nell’addio si stanno sal­dando le due anime del Brasile, quelle che tu desideri ricom­porre, superando la devastante frattura tra gli Have e gli Ha­ve Not, coloro che tutto hanno e coloro che nulla possie­dono, se non la forza della disperazione. Have e Have not, nemmeno sono sicuro che si scriva così, il con­cetto lo usano gli economisti statunitensi, ci è ca­pitato di parlarne insieme. Questa fusione di mondi lontanissimi, improvvisa­mente riavvicinati fino a sovrapporsi, si sta compien­do sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di chi ti ha ac­compagnato a casa. Sulla strada che dall’aeroporto porta al centro della città, si sono radunate, da ore e ore, folle immense. Parlano di cinque milioni di abi­tanti di San Paolo. Fermi, ai lati della immensa tan­genziale che collega lo scalo con la città. Oppure ag­grappati alle ringhiere dei ponti. O appollaiati in ci­ma agli alberi. È uno spettacolo indescrivibile. Ave­vo notato scene paragonabili a queste soltanto in vecchi filmati della televisione. Il funerale di Gandhi in India. L’estremo saluto a Nasser in Egitto. Però loro erano leader spirituali o capi politici e invece tu sei so­lo un pilota. Cioè, mi correggo: eri solo un pilota, non posso insiste­re con la finzione, non ho il diritto di protrarre l’illusione. Ayrton Senna è morto, punto e basta. Il popolo che si spin­ge per lanciare un bacio alla salma, scortata dai cavalieri della presidenza della repubblica, è qui perché sa che non ci saranno altre occasioni. Questa lenta, estenuante processio­ne è la tua ultima corsa. E stavolta sono loro, i poveracci dei quar­tieri malfamati, i ladri e le prostitute, i bambini svenduti sul mer­cato dell’orrido commercio sessuale, sono loro, sì, ad agitare quel vessillo verde oro. Ti stanno salutando come tu li saluta­vi alla fine di un Gran Premio trionfale. [...] Ma ho un’altra domanda che mi frulla per la testa. Come sia­mo arrivati fin qui? E’ venuto il momento di raccontare.

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