La hostess non si limita a controllare la mia carta d’imbarco. Senza dire una parola, curiosamente mi accompagna fino al posto in business class. È una forma di cortesia vagamente incomprensibile. Poi, di colpo, capisco. Subito dietro la mia poltrona, è stato creato uno spazio privo di sedili. Li hanno rimossi. Sul pavimento, è adagiata una cassa verticale, avvolta in una bandiera del Brasile, dai classici colori verde e oro. La hostess sta piangendo. Fatica a trovare le parole. Sa, mi sussurra, non ce la sentivamo proprio di rispettare le norme di viaggio. Non potevamo riportarlo a casa chiuso nella stiva, un bagaglio tra altri bagagli. Lui, no. Ayrton, no. È tutto surreale. Anzi, no, incredibile. Ma dove è finita la realtà che conoscevamo, fino a pochissimi giorni fa? È martedì 3 maggio 1994. Sono le sette della sera. Siamo all’aeroporto Charles De Gaulle, a Parigi. Mi sono appena imbarcato su un volo della compagnia Varig, un simbolo per l’intera nazione brasiliana. Ci aspettano a San Paolo.
[...] La morte in pista di Ayrton Senna, nel giorno della festa del lavoro, mi ha devastato a livello emotivo. Non era, il pilota brasiliano, semplicemente un personaggio del quale professionalmente mi occupavo, scrivendo le cronache della Formula Uno. Avevo imparato a conoscerlo e a volergli bene, pure quando si era comportato, in pista, in un modo che non potevo davvero condividere.[...] Quel 2 maggio, mentre si stanno scatenando le polemiche più aspre sulle cause dell’incidente, decido di fare un salto all’obitorio. Nessuno sa quando il corpo di Senna potrà lasciare l’obitorio di Bologna. Ci sono complicazioni burocratiche, faccende tecniche da sbrigare, eccetera. Però la materia è talmente incandescente che finisce sul tavolo dei presidenti delle repubbliche di Italia e Brasile. Nel primo pomeriggio, la salma viene caricata sul velivolo. La rotta prevede l’atterraggio a Parigi, dove la bara verrà sistemata nella stiva dell’aereo della Varig, destinazione finale San Paolo. Ma il comandante della Varig, quando viene informato, ha una reazione virulenta. È di San Paolo anche lui, anche il comandante. Non ha conosciuto personalmente Ayrton. In compenso, il pilota è l’idolo dei suoi figli. Non potrebbe mai raccontare ai bambini che ha sistemato Senna, ciò che resta di lui, tra le valigie. Il pilota, stavolta dell’aereo, ha sempre diritto all’ultima decisione. Vale anche sull’asfalto della Formula Uno. Al diavolo le regole. Ayrton, che per le traversate intercontinentali utilizzava soltanto la Varig, avrà diritto ad un posto da passeggero. E se qualcuno ha qualcosa da obiettare, si faccia avanti. Non si farà avanti nessuno. Il destino vuole che tocchi a me occupare la poltrona davanti alla bara, davanti a quella bandiera verdeoro che avvolge il ligneo contenitore di un corpo che non respira più, non si muove più, non è più tra noi. [...] E insomma, Ayrton, adesso abbiamo all’incirca dodici ore di viaggio da spendere insieme. Una veglia funebre a diecimila metri di quota. La gente che si alza dai sedili, passa accanto alla bara, la sfiora. Non ci sono scene di isterismo. Prevale una composta, ordinata consapevolezza. Ogni tanto rimbalza l’eco di un singhiozzo. Ma dell’aereo si è impadronito il silenzio. Assoluto. Infrangibile. Non filtra un sussurro. Non si capta un bisbiglio. Ah, Senna. Adesso ho capito, mentre sullo schermo il computer di rotta indica che ci stiamo definitivamente allontanando dall’Europa. Ho capito, sai: stiamo tutti pregando per te. Prega chi crede in Dio, come ci credevi tu, che non avvertivi alcun disagio nel testimoniare la fede in Gesù Cristo, sebbene spesso i tuoi sentimenti religiosi ti esponessero alle facili ironie di tanti. Ma prega, laicamente, anche chi non crede nella vita eterna: ti portano nel cuore, fossero o meno appassionati di automobilismo, di Formula Uno. Immagino te ne fossi accorto. Attraverso gli anni, la tua popo-larità aveva valicato i confini di settore. Non eri ’soltanto’ un pilota, un grande pilota. Sei stato capace di trasmettere a chi ti guardava la tua idea della competizione, d’accordo, ma anche dell’esistenza. Alcuni sostengono che ci hai ’giocato’ sopra, perché in una epoca di sponsor, televisioni eccetera, insomma, acquisire una notorietà vastissima consente di moltiplicare gli incassi, gli introiti, i guadagni. Boh. A me invece sembri sincero. Non mi hai dato l’impressione di speculare. Non sono d’accordo con quanti, dopo quello che è appena successo, hanno preso a descriverti come un santo. Non lo sei. Non hai mai preteso di esserlo. Anni dopo, non sarò d’accordo nemmeno con la canzone che Lucio Dalla ti dedicherà. Carina, per carità. Ma farti dire che per te non ci sarebbe stata differenza tra un piazzamento e un primo posto era, onestamente, una mostruosa mistificazione. Tu, pur di vincere in macchina, avresti asfaltato persino tua sorella! Giusto a proposito di mistificazioni, ad esempio ulteriore, c’è quella faccenda del tuo patriottismo, adesso sublimato dal vessillo verde oro che avvolge la cassa. Dopo ogni vittoria, hai sventolato la bandiera nazionale brasiliana. Cos’è, orgoglio sciovinista? Necessità di prevalere, sul terreno dell’immagine, nell’eterno conflitto con Nelson Piquet, lui carioca di Rio, tu paulista, agli occhi di un popolo che si divide nel tifo, o di qua o di là? La risposta che dai, quando ne parliamo una volta che siamo in macchina con tuo padre Milton, è un invito ad aprire gli occhi sulla realtà del tuo paese. Vedi, mi dici, il Brasile è uno specchio del grande difetto del pianeta, del male del mondo. Nella mia terra, i ricchi sono ricchissimi e i poveri sono poverissimi. Non esiste, mi spieghi, una via di mezzo, il cosiddetto ceto medio è debolissimo. Io, Ayrton Senna, appartengo alla Casta e ne sono consapevole, vengo da una famiglia che non ha mai avuto problemi di sussistenza. Ho questa grande fortuna e ne sono lieto, però proprio per questo ho il dovere di non dimenticare le masse sterminate delle fa- velas, i disperati che abitano le baracche a poche centinaia di metri dalle residenze lussuosissime. Quando prendo la bandiera verde oro, la mostro per chi non ha niente, per chi è orgoglioso di essere brasiliano ma sogna e immagina un futuro differente, lontano dalla miseria, dalla angoscia, dalla assenza di qualunque speranza… A me sembra un discorso, come dire, che ha lo spessore di un programma politico. Di un progetto per una carriera da ministro, da governatore, da presidente addirittura. Te lo dico e ti metti a ridere, no, per carità, in politica mai, uso parte dei miei soldi per aiutare gli emarginati e i ghettizzati e continuerò a farlo anche una volta appeso al chiodo il volante, però non entrerò mai nel Palazzo, è l’intera società brasiliana che deve cambiare profondamente, è un mutamento al quale ognuno deve contribuire e nessuno può sentirsi estraneo. [...] L’aereo della Varig poggia le sue ruote sulla pista di Guaraulhos, il gigantesco scalo di San Paolo.
La bara viene calata dal portellone centrale. Ad accoglierla, sull’attenti, ci sono i soldati. Il resto è ancora più coinvolgente e sconvolgente. Perché nell’addio si stanno saldando le due anime del Brasile, quelle che tu desideri ricomporre, superando la devastante frattura tra gli Have e gli Have Not, coloro che tutto hanno e coloro che nulla possiedono, se non la forza della disperazione. Have e Have not, nemmeno sono sicuro che si scriva così, il concetto lo usano gli economisti statunitensi, ci è capitato di parlarne insieme. Questa fusione di mondi lontanissimi, improvvisamente riavvicinati fino a sovrapporsi, si sta compiendo sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di chi ti ha accompagnato a casa. Sulla strada che dall’aeroporto porta al centro della città, si sono radunate, da ore e ore, folle immense. Parlano di cinque milioni di abitanti di San Paolo. Fermi, ai lati della immensa tangenziale che collega lo scalo con la città. Oppure aggrappati alle ringhiere dei ponti. O appollaiati in cima agli alberi. È uno spettacolo indescrivibile. Avevo notato scene paragonabili a queste soltanto in vecchi filmati della televisione. Il funerale di Gandhi in India. L’estremo saluto a Nasser in Egitto. Però loro erano leader spirituali o capi politici e invece tu sei solo un pilota. Cioè, mi correggo: eri solo un pilota, non posso insistere con la finzione, non ho il diritto di protrarre l’illusione. Ayrton Senna è morto, punto e basta. Il popolo che si spinge per lanciare un bacio alla salma, scortata dai cavalieri della presidenza della repubblica, è qui perché sa che non ci saranno altre occasioni. Questa lenta, estenuante processione è la tua ultima corsa. E stavolta sono loro, i poveracci dei quartieri malfamati, i ladri e le prostitute, i bambini svenduti sul mercato dell’orrido commercio sessuale, sono loro, sì, ad agitare quel vessillo verde oro. Ti stanno salutando come tu li salutavi alla fine di un Gran Premio trionfale. [...] Ma ho un’altra domanda che mi frulla per la testa. Come siamo arrivati fin qui? E’ venuto il momento di raccontare.