lunedì 24 settembre 2012
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​Allora d’accordo, ci vediamo domattina alle 11 da Augusto… al cimitero». Ci dà appuntamento lì Beppe Carletti, al cimitero di Novellara (Reggio Emilia), sulla tomba di Augusto Daolio, la voce eterna del loro gruppo, i «Nomadi». Dalla Luzzara di Zavattini attraversiamo la Bassa, dove ogni ragazzo degli anni ’60 è cresciuto con lo spirito romantico e la coscienza civile pronta a sbocciare in Om ad Po («Uomo da Po»). In questo Mondo piccolo di Guareschi (la Brescello di Don Camillo è a un tiro di schioppo) tanti uomini ispirati, venuti su a testa alta, come i pioppi che salutano il trenino che da Guastalla porta a Novellara. Ieri ci viaggiavano i ragazzi che sapevano a memoria le canzoni dell’«Equipe 84» del modenese Maurizio Vandelli e dei «Nomadi» della Bassa reggiana. Gruppi fioriti come girasoli da mettere nei cannoni, negli anni tra il boom economico e la barricata sessantottina. «Anime diverse di una terra, di un mito americano ora inseguito, ora prepotentemente rifiutato, generazione dopo generazione», ha scritto pensando a loro un postmoderno Pier Vittorio Tondelli, nato e cresciuto a Correggio, «due piani sopra» Luciano Ligabue. Il «Liga» cantante (anche l’omonimo, il maestro naïf, è sempre di qui, di Gualtieri) che ragazzino-rocker (come Vasco Rossi di Zocca) spediva i suoi primi testi ai «Nomadi». Ma anche a Pierangelo Bertoli (morto 10 anni fa lo stesso giorno di Augusto, 7 ottobre) che in carrozzina girava con la chitarra sotto i portici di Sassuolo, da dove era volata a Milano incontro al successo Caterina Caselli. «Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu…», cantava il casco d’oro Caterina. «Come potete giudicar, come potete condannar, per i capelli che portiam…», rispondevano in tronco quei capelloni beat della Bassa, dove vent’anni dopo la fine precoce dell’Augusto (aveva solo 45 anni) continua a far rumore.Tutti da queste parti ricordano con rimpianto e orgoglio «il loro John Lennon». Il popolo di Vagabondo arriva davanti al cancello del piccolo cimitero con gli zaini carichi di nostalgia che si tramanda ancora di padre in figlio e assieme accennano: «Poi una notte di settembre me ne andai…». Ci viene incontro Beppe, «l’ultimo rimasto dei 23 Nomadi». Tanti, in mezzo secolo, sono saliti sul palco di questa formazione che ha segnato la storia della musica pop, partendo dalle sale parrocchiali, dalle balere e dalle sagre di strapaese. Il debutto ufficiale dei «Nomadi», «nome – spiega Carletti – rilevato a un gruppo di Ischia che si era sciolto», è una data impressa nella memoria collettiva: 22 novembre 1963, la sera dell’omicidio del presidente John Kennedy. Una delle tante strane coincidenze nel cammino di quei 5 ragazzi che nelle locandine del loro primo successo Donna la prima donna si firmavano: Franco lo studente, Augusto il pittore, Gianni il mandriano, Beppe il musicista, Bila l’operaio. Sorride Beppe ripensandoci, mentre ci guida in questa Spoon River bassaiola. Augusto riposa sotto la grande quercia piantata il 7 ottobre 1992: «Quel giorno erano in diecimila al suo funerale». Da allora questa tomba, scolpita da un artista suo amico, è diventata come quella di Jim Morrison nel cimitero parigino del Père Lachaise: luogo di incontro per tutti i «Nomadi» sparsi nell’universo e giardino delle rimembranze per quelli finiti nel mondo dei più. Come Paolone, quarantenne che non perdeva un concerto: tra le tante targhe ora c’è quella che gli ha dedicato sua figlia: «Papà, ora sei un Nomade». «Non l’avrei mai detto – dice emozionato Beppe –. Ma qui arrivano ancora famiglie intere, a volte carovane di pullman da tutt’Italia. Non passa giorno che qualcuno non porti un fiore, un biglietto, una bottiglia di vino, le sigarette per Augusto… Ne fumava anche 4 pacchetti al giorno».Un cancro ai polmoni ha stroncato il compagno sul fronte del palco di Beppe. Augusto, conosciuto a 16 anni, quando quel ragazzo dagli occhiali neri lavorava al bancone nel bar di famiglia e alla sera cantava, per gioco, a La Pineta. Fu ai tavoli di un altro bar, il Frankfurt di Riccione, che Beppe e Augusto decisero che avrebbero girato l’Italia per cantare Dio è morto (ma «se Dio muore è per tre giorni poi risorge», stava scritto sulla copertina originale), scritta da un altro compagno di viaggio, Francesco Guccini, «l’orso buono di Pavana», lassù sull’Appennino tosco-emiliano. «Allora non l’avevano mica capito che Guccini aveva preso quei versi dall’Urlo di Allen Ginsberg… Ci minacciarono: "Voi azzardatevi a cantare ’sta roba qua e avete chiuso"...». E invece, cinquant’anni dopo, il gruppo più longevo della musica nostrana, con alle spalle 300 canzoni e 35 album (l’ultimo appena uscito s’intitola Terzo Tempo) è ancora in pista.Quel brano lo cantano anche stasera. «I primi a cantare Dio è morto furono proprio dei preti nostri fan, come don Benzi, e la fecero suonare anche in chiesa», dice divertito Beppe, l’unico del gruppo originario ad aver studiato musica, «la fisarmonica». Primo strumento con cui accompagnava la voce inconfondibile di questo eccentrico clan di anti-vitelloni: «Ognuno si vestiva come gli pareva, qualcuno come i Beatles, qualcuno come gli Animals, qualcuno come Keith Richards, qualcuno alla campagnola», così un fine narratore delle pianure come Edmondo Berselli. «Noi, diceva Augusto, siamo come i menestrelli medioevali che vanno di castello in castello, a portare la loro musica e ad allietare il popolo. Quel popolo che ci ha sempre dato il potere e la libertà di essere Nomadi: uomini incorruttibili, mai venuti a patti con nessuno». Mai scesi a compromessi neppure con il successo. «Una volta passò da Novellara Francesco De Gregori e rimase sorpreso quando vide che io e Augusto stavamo tranquillamente seduti al Bar Roma… La gente ci ha sempre amato, perché noi siamo la gente». Ora ai tortelli del ristorante Colombo si sono aggiunti i «biryani» del Pakistan sulle tavole di un borgo di 14 mila anime profondamente cambiato da quando Augusto non c’è più: sui banchi di scuola Novellara ha il 36% di bambini stranieri e vanta il tempio Sikh più grande d’Europa. «Ma Augusto, se fosse qui ora con la sua bella barba lunga, bianca, sarebbe stato un buon amico di tutta questa gente arrivata da terre lontane». Socialismo reale di chi veniva schedato con pregiudizio come complesso comunista o anarchico: «Infatti – ride Carletti – gli unici a contestarci furono gli anarchici che a Reggio Emilia interruppero il concerto». Ma è sempre stato impossibile fermare i «Nomadi»: «Oggi con la crisi un po’ meno, ma con Augusto siamo arrivati a fare anche 220 serate l’anno. Si suonava e si andava avanti fino a quando ce la facevamo». Da nomade puro Augusto aveva attraversato i 5 continenti, arrivando anche in Terra Santa con il progetto «I ragazzi dell’ulivo» per adottare a distanza un bambino palestinese. «Forse siamo stati i primi ad andare a suonare nelle carceri e nelle comunità di recupero, ma per noi era come fare un concerto qui in piazza. Il nostro vero successo? Comunicare certi valori ed accorgerci ogni volta, come per miracolo, che lì sotto al palco erano gli stessi della gente che ascoltava».Un popolo in ascolto di una musica fatta di pensieri e parole profonde con le fattezze di quelle che Guccini considera «come piccole storie mie/ che non si sono mai messe addosso il nome di poesie». Generazioni a confronto, ammaliate da quella voce che diventava ipnotica quando smetteva di cantare e cominciava a parlare. «Se sono quello che sono oggi è perché ho avuto la fortuna di accompagnare e ascoltare la voce di Augusto. Quella voce che sapeva far rimanere tutti a bocca aperta, specie i bambini». E non è un caso che di fianco alla tomba di Augusto riposino i "piccoli angeli". È come riascoltare la gucciniana Auschwitz: «Son morto ch’ero bambino, adesso sono nel vento». Già, Augusto e i piccoli angeli adesso sono nel vento.
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