mercoledì 8 aprile 2020
Dopo il Vaticano II cadde il pregiudizio verso gli israeliti di deicidio. Ma episodi antiebraici hanno convinto lo storico Sweeney a ribadire che Gesù non morì per mano ebraica
Giotto, "Cristo davanti a Caifa". Padova, cappelle degli Scrovegni

Giotto, "Cristo davanti a Caifa". Padova, cappelle degli Scrovegni - WikiCommons

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Bisogna arrivare fino in fondo per apprezzare pienamente l’importanza di un libro come Gesù non fu ucciso dagli ebrei, curato dallo statunitense Jon M. Sweeney e tempestivamente tradotto da Anna Montanari per Terra Santa (pagine 208, euro 15,00, disponibile in ebook). Bisogna arrivare alla postfazione firmata da Amy-Jill Levine, figura di spicco nella ricerca accademica e, nel 2019, prima docente ebrea a tenere un corso sul Nuovo Testamento al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Con molto garbo e con erudizione impeccabile, la studiosa non rinuncia a esprimere le proprie riserve su alcuni dei saggi presenti nel volume, ma non per questo ne contesta la necessità. Al contrario, una ricognizione su quelle che il sottotitolo italiano definisce «le radici cristiane dell’antisemitismo» rimane quanto mai opportuna e il fatto che sia condotta con uno stile divulgativo, con le inevitabili semplificazioni su cui Levine occasionalmente eccepisce, non ne sminuisce affatto la portata.

Il libro, come dicevamo, arriva dagli Stati Uniti, e nell’edizione italiana è integrato da una puntuale prefazione di padre Etienne Vetö, direttore del Centro Cardinal Bea per gli Studi giudaici della Gregoriana, che mette sull’avviso il lettore: quello denunciato dall’équipe di autori convocata da Sweeney non è un problema di cui il nostro Paese si possa disinteressare. Ci sono di mezzo le leggi razziali del 1938, certo, e il fatto che senza il precedente del fascismo difficilmente il regime nazista sarebbe riuscito ad attecchire in Germania, ma più ancora del contesto storico è il pregiudizio del deicidio a dover essere messo in questione, quello stesso pregiudizio che per lungo tempo ha trovato ospitalità nella Chiesa e che solo nel 1965, con la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, è stato ufficialmente superato.

Non per questo il percorso si può considerare concluso, come ricorda nella sua premessa Abraham Skorka, il rabbino di Buenos Aires con il quale papa Francesco intrattiene un rapporto particolarissimo fin da quando era arcivescovo della capitale argentina (insieme i due hanno firmato il best seller Il cielo e la terra). È Skorka, tra l’altro, a richiamare l’attenzione sul ruolo svolto da Jules Isaac (1877-1963), lo storico francese al quale si deve la documentata rivendicazione dell’ebraicità di Gesù e, nello stesso tempo, l’avvio di un dialogo interreligioso che, sancito da Vaticano II, ha poi trovato ulteriore slancio sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e oggi, appunto, di Francesco.

Fin qui il quadro complessivo, all’interno del quale il caso statunitense occupa una posizione peculiare. Lo si coglie in diversi passaggi di Gesù non fu ucciso dagli ebrei, che è tra l’altro un libro ricchissimo di testimonianze personali. La più rilevante è forse quella implicitamente resa dallo stesso curatore (cattolico, Sweeney è sposato con una rabbina), ma non meno significativi sono gli accenni autobiografici che trapelano dall’intervento di Wes Howard-Brook, aderente a una denominazione del giudaismo messianico, la Via del Gesù ebreo. Da bambino, racconta, era terrorizzato «dai cristiani» del suo quartiere di Los Angeles: «Non che ne conoscessi di persona – spiega –. Però avevo sentito dire che i cristiani pensavano che io, in quanto ebreo, fossi responsabile della morte di Gesù Cristo».

Il timore, purtroppo, non era affatto infondato. Poco meno di un anno fa, il 27 aprile 2019, un giovane californiano di soli 19 anni, Jon Earnest, si è reso responsabile di una sanguinosa aggressione contro la sinagoga di Poway, nella contea di San Diego, dove si stava celebrando la conclusione della Pasqua ebraica. Ed è proprio a partire da questo episodio o, meglio, dalla concatenazione di eventi del quale l’attentato di Poway fa parte (pochi mesi prima, il 27 ottobre 2018, si era consumata la strage in una sinagoga di Pittsburgh, in Pennsylvania), che Sweeney ha deciso di realizzare Gesù non fu ucciso dagli ebrei.

Ormai abbandonata dalla teologica cattolica, la dottrina “della sostituzione” (nel volume è illustrata dal biblista Richard C. Lux: con l’avvento del cristianesimo verrebbe meno il patto tra Dio e Israele, che sarebbe quindi destinato a estinguersi) ha ancora corso nell’affollato panorama delle congregazioni evangelicali, caratterizzate dalla tendenza a un’interpretazione letterale e fortemente decontestualizzata delle Scritture.

Lo sforzo di Sweeney e dei suoi collaboratori – citiamo, tra gli altri, monsignor Richard J. Sklba, l’ebraista Walter Brueggemann, lo storico Massimo Faggioli e la rabbina Sandy Eisenberg Sasso, che offre illuminanti spunti pedagogici – consiste nel ribadire alcune nozioni di base, incredibilmente ancora poco recepite a livello generale. Quali? Che Gesù era ebreo, anzitutto, e che professava la fede del popolo di Israele. E poi che lo stesso Nuovo Testamento fu composto in ambito ebraico, in una fase nella quale il cristianesimo stava ancora assumendo connotati autonomi e ancora non era del tutto uscito dal complesso intreccio delle varie correnti dell’ebraismo. Una delle tesi messa in discussione da Levine è quella, più volte ribadita, per cui le “parole dure” che i Vangeli riservano a scribi e farisei, quando non agli stessi «giudei», sarebbero da intendere nella prospettiva di un dibattito interno all’ebraismo.

Resta chiaro, in ogni caso, l’assunto centrale: la partecipazione di alcuni ebrei alla condanna di Cristo non autorizza in alcun modo ad assumere atteggiamenti di discriminazione o, peggio ancora, iniziative di persecuzione. Dopo la Nostra Aetate, sintetizza padre Nicholas King in Gesù non fu ucciso dagli ebrei, «i cristiani cattolici non hanno giustificazioni per l’antisemitismo».

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