
Il numero uno al mondo del tennis, il campione azzurro Jannik Sinner - Ansa
Il Roland Garros non parla più francese. Ora è l’italiano la lingua del rosso di Parigi, oltre allo spagnolo, che prima con Rafa Nadal e ora con Carlos Alcaraz è sempre in voga. C’era una volta, infatti, il tennis francese. Ispirato, elegante, fiero. Amato per il suo stile, celebrato in casa con una venerazione che ne ha alimentato il mito oltre i meriti reali. Ma mentre a Parigi si rincorrono le ultime fasi del Roland Garros 2025 (domani le finali del singolare maschile, tra l’azzurro Sinner e lo spagnolo Alcaraz, e del doppio femminile, con in campo Jasmine Paolini e Sara Errani, con quest’ultima che assieme Andrea Vavassori giovedì ha vinto pure il “misto”), la sensazione è quella di un crepuscolo che sa di resa: la Francia ha perso il suo torneo. Per l’ennesima volta.
Eppure, sembrava l’anno giusto per almeno un sussulto: la giovane Loïs Boisson ha infiammato la platea con un percorso inaspettato fino alla semifinale. Ma anche lei si è dovuta arrendere. Da sola, non può riscattare un movimento intero. Che ora guarda con invidia quello italiano, dove non c’è solo Sinner: ormai è diventato una fucina di campioni, come Lorenzo “Il Magnifico” Musetti, a ridosso del numero 4 al mondo.
Perché, il bilancio del tennis francese in questo Roland Garros è, come da copione degli ultimi vent’anni, avvilente. Gli uomini sono usciti di scena uno dopo l’altro: nessun nome che faccia davvero paura, nessuno che vada oltre gli ottavi. Gli ultimi sussulti risalgono al secolo scorso: Yannick Noah, nel 1983, è ancora l’ultimo eroe capace di vincere in casa. Da allora solo nostalgie: Henri Leconte, finalista nel 1988 (umiliato in finale da Mats Wiliander), più noto per il sorriso guascone che per la continuità; la generazione degli anni 2000 con Gasquet, Monfils, Tsonga e Simon – talento a corrente alternata, estetica pura ma poca sostanza. Al massimo, qualche semifinale (Gasquet a Wimbledon, Monfils proprio a Parigi nel 2008), ma mai nessuna reale sensazione di dominio. Manca la fame. Manca la durezza. Manca il carattere, la resilienza e la “garra” degli italiani e degli spagnoli.
Nel femminile, è bastata Amélie Mauresmo – che pure ha ammesso spesso la propria fragilità mentale – a salvare l’onore: numero uno del mondo nel 2006, vincitrice a Melbourne e Wimbledon, ma mai capace di imporsi al Roland Garros. Anche Marion Bartoli ha lasciato il segno, ma altrove. Da allora, una lunga serie di promesse mai sbocciate. Parry e Garcia sembrano più oasi che frutti di un sistema. E intanto, i francesi si consolano con il doppio: è il solo campo in cui raccolgono qualcosa, come la vittoria di Llodra e Clément nel 2003 o le corse di Mahut e Herbert. Troppo poco e pure tutto perso nelle notti dei tempi. E oggi l’americana Coco Gauff ha battuto la bielorussa Aryna Sabalenka (punteggio: 6-7, 6-2, 6-4) diventando la nuova regina di Francia.
Nel frattempo, Roland Garros ha cambiato accento. Se per un ventennio ha parlato spagnolo, sull’eco di Rafael Nadal, oggi il rosso di Parigi sembra tingersi di verde, bianco e rosso. È l’Italia il nuovo baricentro del torneo. Jannik Sinner, Lorenzo Musetti e altri azzurri ancora. E tra le donne, Jasmine Paolini. In doppio, poi, la coppia Paolini-Errani sembra una staffetta generazionale: la romagnola, finalista Slam dieci anni fa in singolare, è oggi la guida esperta di un movimento in piena salute. Il paradosso è evidente: mentre la Francia, patria di Roland Garros e madre di uno dei tornei più iconici del mondo, assiste inerme al proprio declino, l’Italia – che per anni si è leccata le ferite aspettando il “dopo Panatta” – ha costruito, silenziosamente, una scuola. Merito delle Academy (da quella di Piatti a Bordighera a quella federale di Tirrenia), di una nuova cultura fisica e mentale, ma anche del lavoro profondo della Federazione capitanata da Angelo Binaghi, che ha investito nel lungo termine. Il risultato è una presenza costante nelle fasi finali dei tornei, un dominio crescente sulla terra, e – forse – la convinzione di potercela davvero fare, dove una volta si sperava soltanto di non sfigurare. Il contrasto è persino culturale. Dove i francesi hanno costruito personaggi più che campioni, gli italiani hanno scelto la concretezza. Dove la Francia si è aggrappata al carisma di Noah e all’estro di Leconte, l’Italia ha fatto della resilienza la propria bandiera. Roland Garros se n’è accorto. Ora, quando i ragazzini francesi guardano al campo centrale, non sognano più di essere Noah o Santoro. Sognano di essere Sinner. Di muoversi come Musetti. Di lottare come Paolini. Ed è qui che si misura un tramonto: non nei risultati, ma nei modelli. L’Italia è diventata ciò che la Francia voleva essere. E allora, per una volta, sul rosso di Parigi non si balla il cancan. Si canta “Fratelli d’Italia”.