
Sebastião Ribeiro Salgado Júnior, fotografo e fotoreporter brasiliano, è considerato uno tra i maggiori fotografi dei secoli XX e XXI - ANSA
Per riconoscerlo subito come un grande fotografo umanista, forse il più intrepido e intransigente degli ultimi decenni, esistevano due modi. Il primo era e resta contemplare uno dei ritratti o degli sconvolgenti paesaggi umani con cui Sebastião Salgado ha raccontato le voragini di disperazione alle periferie del mondo, prendendo in contropiede per decenni tante definizioni ufficiali edulcorate su un’umanità «sulla rotta della prosperità, nonostante tutto». Il secondo era ascoltarlo parlare del suo lavoro, con quella tensione nella voce che di colpo poteva precipitare in un singhiozzo di sofferenza o indignazione, proprio mentre i suoi occhi chiari cominciavano a brillare, riempiendosi di una prima lacrima affiorante. «Quante volte nella mia vita ho messo l’apparecchio da parte e mi sono seduto per piangere», ci aveva confessato solo qualche settimana fa a Deauville, sul litorale della Normandia, per l’apertura di un’ampia e splendida mostra retrospettiva, intitolata semplicemente con il suo nome. Un evento ancora in corso, presso l’ex monastero delle Franciscaines, che resterà adesso come una sorta di testamento spirituale. Il grande testimone e narratore per immagini, celebre per i suoi scatti in bianco e nero spesso riprodotti in grande formato, si è spento all’età di 81 anni, come ha annunciato l’Accademia di Belle Arti di Parigi, che lo aveva accolto fra i propri membri nel 2016. E non è certo un caso che Salgado abbia voluto la prima grande mostra retrospettiva capace di abbracciare le principali fasi della sua ricchissima e variegata opera, dal 1973 al 2011, a due passi dalle correnti di quell’oceano che così spesso ha attraversato, fra il Brasile natale e la Francia, dove la sua carriera prese un primo decollo grazie a reportage pubblicati su riviste cattoliche, come La Vie catholique, o Croissance des jeunes nations, della Caritas transalpina. Fra i tanti temi caldi finiti nella sua ‘valigia’ senza eguali, i conflitti in Africa e Asia, compreso il genocidio in Ruanda, le popolazioni affamate del Sahel, gli esodi dei disperati, l’Amazzonia amata e mai dimenticata, l’infanzia, anche come ‘ambasciatore di buona volontà’ dell’Unicef.
«Mi resta ancora d’attraversare in lungo e in largo questo mare che è stata la mia vita», ci aveva detto, dopo aver ricordato il suo stupore, guardandosi allo specchio, il giorno dei suoi 80 anni, con un pensiero commosso per i tanti colleghi caduti invece sugli stessi luoghi estremi di reportage che aveva calcato. Sì, anche a questo si era dedicato negli ultimi mesi: immergersi nei propri scatti legati al mare e all’acqua, prima culla della vita, come per cercare di spegnere ancora una volta gli incendi di sofferenza che si portava dentro, da testimone appassionato dei dannati del pianeta. Come i famosi minatori seminudi nel formicaio umano della miniera d’oro della Serra Pelada, nel grande Stato brasiliano amazzonico del Parà: uno dei suoi reportage e libri più celebri, capace di sbattere in faccia al mondo scene degne dell’Inferno di Dante. Una testimonianza appassionata nella scia, come le altre, di una scelta di campo fondativa: la rinuncia a una brillante carriera d’economista, presso istituzioni prestigiose come la Banca Mondiale, per mettersi a raccontare le ferite dell’umanità più dilaniata. Affiancato dalla moglie, Lelia, da sempre prima ispiratrice e collaboratrice, aveva rinunciato a lauti stipendi per il «potere di esserci stato»: ovvero, nei luoghi dove il mondo traballa, svelando il suo volto più autentico. Salgado ha sempre difeso ostinatamente questo potere unico del fotografo. Ma a caro prezzo. Tanto da far piangere non pochi a Deauville, raccontando della sua salute da decenni più che malferma, anzi spesso sull’orlo d’un burrone, per una forma grave di malaria contratta in Asia, così come per le innumerevoli ferite e operazioni conosciute lungo una vita da reporter. Nel 1991, in Kuwait, in mezzo al fragore dei centinaia di pozzi di petrolio fatti saltare da Saddam Hussein, perse buona parte dell’udito e riuscì a scamparla solo grazie a una tuta speciale trovata in un deposito d’armi dell’esercito iracheno. Anche per cercare conforto da quell’abisso di follia bellica e da quella catastrofe ecologica, decise di concedersi una ‘pausa’ più contemplativa in Sicilia, al fianco di un altro genere di rais: il capo dei cacciatori di tonni della mattanza. La schiuma del litorale trapanese per cercare di spegnere le fiamme rimaste negli occhi e nell’anima. Un pericoloso gioco di pendolo conosciuto tante volte in vita.
Quegli anni Novanta, dopo due decenni di reportage per prestigiose agenzie come Magnum, furono per Salgado uno spartiacque: con la creazione nel 1994 dell’agenzia Amazonas Images, esclusivamente dedicata al suo lavoro. Ma anche con la scelta di dedicarsi, dopo un periodo di esaurimento interiore e di sospensione dell’attività di reporter, al recupero di una parte della foresta atlantica del Brasile, nella Valle del Rio Doce. Proprio nelle contrade del Minas Gerais dove il fotografo nacque. Un nuovo Salgado, dunque, anche attore di un cambiamento ancora possibile per riscattare un pianeta in pericolo. Gli anni 2000 saranno così quelli di un progetto estremamente ambizioso, Genesis, per documentare la parte della Terra capace di sfuggire alla devastazione ambientale, anche rigenerandosi, come la foresta brasiliana presa in cura da Sebastião e Leila. Ufficialmente non credente, Salgado si era tenuto nondimeno sempre vicino all’universo della fede, affidando ad esempio nel 2013 la sua biografia alla giornalista Isabelle Francq, del settimanale cristiano La Vie. L’anno seguente, un altro credente, il grande cineasta tedesco Wim Wenders, aveva lavorato a Il Sale della Terra, toccante documentario sul fotografo, il cui lavoro, presentato in decine di grandi esposizioni in tutto il mondo, ha ottenuto pure premi e riconoscimenti fra i più prestigiosi. Dal 2010, sempre all’insegna di quell’acqua amazzonica vitale in cui sguazzò da bambino, assorbendovi la certezza definitiva dello splendore della natura, aveva lanciato pure il progetto Olhos d’Agua (Occhi dell’acqua), volto a recuperare e preservare le risorse idriche del Rio Doce. A Deauville, nell’ultimo dei rari scatti ufficiali davanti all’obiettivo, aveva posato al fianco di una foto dei meandri fluviali portentosi del Jurua, fra i più importanti affluenti del Rio delle Amazzoni. Spire d’acqua come per suggerire che il destino dell’umanità e del pianeta resta una ruota da cui mai potrà essere espulso il sapore della speranza. Lo stesso che, dopo la sua crisi più profonda, aveva sentito rinascere dentro e che lo aveva tenuto in vita, grazie alla contemplazione della forza positiva della vita e dell’invincibile «solidarietà fra le specie del pianeta».