domenica 27 ottobre 2019
Il 28 ottobre di quarant’anni fa un razzo partito dalla curva romanista uccise il tifoso laziale. Il figlio: «Papà avrebbe fatto grandi cose, ma un destino crudele gli ha tolto il tempo»
Un murale che ritrae Vincenzo Paparelli

Un murale che ritrae Vincenzo Paparelli

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Sottobosco metropolitano, bombolette spray sul marmo bianco del vecchio Olimpico. Il lutto del nemico nell’irreverente bersaglio, oltraggio di una generazione a mano armata. «10-100-1000 Taccola». Al posto di scudetti e coppe, lo scalpo dei caduti divenne macabro trofeo. Ostentazione di slogan mutuati dall’autunno caldo. Mai più. «10-100-1000 Re Cecconi». Domenica 28 ottobre 1979 un biglietto di curva costava 2.200 lire, l’ingresso nell’arena sulla prima pagina della stampa romana: «gli acidi del derby». Commando Ultrà Curva Sud contro Eagles Supporters erano i marchi da opposte fazioni, orgia collettiva per una stracittadina marchiata a lutto, entusiasmo e aggregazione tra sventolio di bandiere, fumogeni e rullio di tamburi, il grido di battaglia nella perdita dell’innocenza. Una troupe televisiva Rai riprese la tana del lupo. L’antefatto del punto di non ritorno nell’editto contro le aquile: «Morirete, morirete».

Estranei ai riti del giovanilismo organizzato, in Curva Nord sedevano su panche di legno Vanda Del Pinto e Vincenzo Paparelli. Ignari che a 250 metri di distanza, un ragazzo minuto e orecchino al lobo sinistro adagiava sul travertino un tubo metallico. Ore 13.30, la vendetta finì lì dentro. Maledetta. Un razzo cilindrico di tipo nautico, alluminio privo di punta, 30 centimetri per 5 di diametro usato in mare aperto in caso d’emergenza, si fece emissario dell’odio con rimorso. Viaggio di sola andata, senza ritorno. Non si scherzava, ma il gioco divenne improvvisamente troppo pesante per esuberanti adolescenti. Roma-Lazio 1979. «Giordano merda, Pruzzo O’Rey», «Rocca bavoso i morti non resuscitano». Tolto l’anellino della sicura, un fischio sibillino e una scia verde scura oltrepassarono la curva laziale. Dalla Sud un’ovazione e applausi da corrida, il primo finì addosso una collinetta. «Olè!!!!!». Non era finita. Ancora una scintilla, ancora un sibilo sordo. Il secondo ordigno viaggiò a 80 chilometri orari. Parabola orizzontale, superò il tartan della pista d’atletica leggera, traiettoria spostata forse da una corrente d’aria. Zig-zag, il razzo volteggiò superando il rettangolo di gioco, da parte a parte, da curva a curva, finendo spedito sulla Nord, in direzione del primo boccaporto lato Tribuna Monte Mario, davanti l’ingresso numero 57.

Gabriele Paparelli ricorda: «Lì erano seduti i miei genitori. Mia madre era seduta proprio lì. Stava guardando gli striscioni della curva. Mio padre era al suo fianco, seduto dopo aver sgranocchiato qualche bruscolino. Stavano attaccati l’uno all’altra. Fu un attimo. Di soprassalto. Un colpo. Un fragore inatteso». Come una ferita da guerra, colpito all’occhio sinistro, una fontanella di sangue sommerse il volto dell’inerme Vincenzo Paparelli. Colpevole, chissà poi quanto, di trovarsi nel punto sbagliato al momento sbagliato. Prima dell’ultimo respiro. Sua moglie Vanda inutilmente chiese aiuto, si ustionò una mano nel tentativo di togliergli dal volto la morte. Al momento del violento impatto, sull’uomo si accese un’abbagliante luce rossa. Spinta da impulsivo coraggio e forza della disperazione, d’istinto la moglie riuscì a levargliene parte, un’altra gli rimane conficcata nell’orbita, nella testa ormai fumante. Adagiato inutilmente su una barella, Vincenzo finì in ambulanza, arrivando morto all’Ospedale Santo Spirito. Appassionato di auto, professione meccanico, romano di Via Boccea trapiantato in zona Montespaccato, 33 anni, padre di due figli, rigorosamente laziale.

Così è morto Vincenzo Paparelli. «Se vedessi un ragazzo con dei razzi in mano glieli farei ingoiare. Mi sono rovinato la vita per quella robaccia». Giovanni Fiorillo era invece lo Tzigano, romanista dell’Esquilino, 18 anni, operaio disoccupato, ultrà del commando. Fu lui ad innescare il razzo nautico. «Sto facendo una vita infame – Tzigano, il nomade emarginato –. Ho tirato a campare. Devi sempre correre, scappare, diffidare di tutto e tutti. I vecchi amici mi hanno abbandonato. Perfino la ragazza mi ha piantato». Latitante a Bergamo, fuggiasco in Svizzera, esilio forzato dal Cucs prima di costituirsi in Questura. Gli ultras biancocelesti lo cercarono in nome della sacra vendetta. Per Fiorillo lo sforzo del significato finì invece dentro un tunnel senza via d’uscita. Galera e droga prima di dileguarsi nella malattia. Gabriele Paparelli preferisce ricordare: «Mio padre era davvero un grande e non lo dico come frase fatta. Papà era il centro intorno a cui girava tutta la nostra famiglia. Avrebbe fatto grandi cose, ma un destino crudele gli ha tolto il tempo, il suo tempo...».

Nel mondo del tifo calcistico, la morte di Paparelli ha una dimensione sociale assestante. Spartiacque generazionale, ha segnato la storia non solo nell’antagonismo tra curve capitoline. Prima si entrava allo stadio senza controlli delle forze dell’ordine e non esistevano settori ospiti né tessera del tifoso. Ma nell’intimità della famiglia della vittima, la violazione del riposo eterno si tramutò in incubo ricorrente d’odio, incolto e bieco. Mezzo secolo meno due lustri di vergogne partorite all’istante. In attesa del dopo. «Un giorno mamma si trovò a camminare sul marciapiede di via Casilina, quando vide la saracinesca di un negozio con una vergognosa scritta: “Paparelli Boia”, incredibile! Ma come? Papà era morto in quel modo così drammatico e c’era qualcuno disposto addirittura ad etichettarlo come boia? Mamma era sconvolta, terrorizzata. Andò di corsa dal proprietario del negozio chiedendogli di togliere quella spaventosa frase. Il giorno dopo non c’era più». Telefonate anonime, minacce, sciacallaggio puro: «Pronto... siete i Paparelli? Allora... 10-100-1000 Paparelli». Unico rimasto, morta poi anche la mamma Vanda dopo il fratello Mauro, oggi il figlio di Paparelli è sua volta padre di una piccola bambina. Già laziale come il nonno. Sangue e dolore, col tempo scontati sulla pelle.

Di padre in figlio, Gabriele. «La mia vita è stata un calvario. Dannazione. Nel periodo delle elementari cambiai addirittura tre scuole in appena cinque anni. Praticamente vivevo senza punti di riferimento. Non socializzavo. I miei compagni mi erano indifferenti, anzi non di rado mi isolavo volentieri estraniandomi dal contesto scolastico. Frequentavo la scuola media statale Donatello al Villaggio Breda. Sul mio banco trovavo spesso la scritta “10-100-1000 Paparelli”. Una volta ne individuai l’autore. Lo bloccai dentro la classe. Era un ragazzino come me. Dodici, massimo tredici anni. Gli chiesi perché lo scriveva. Non riuscì a fornirmi una risposta plausibile. Disse solo che lui era tifoso della Roma e che Paparelli era un tifoso della Lazio morto allo stadio nel derby. E questo per lui bastava a giustificare quella scritta. In pratica, non sapeva nemmeno perché lo aveva fatto». Se potesse tornare indietro a 40 anni fa, Gabriele Paparelli farebbe un gesto nobile, da uomo maturo e consapevole, prendendo per mano lo Tzigano. Riavvolgendo il nastro, come per decenni ha tentato di fare mettendosi a caccia di offensive scritte murarie, cancellate col cuore, in riparazione del danno compiuto: «Fermati amico mio... fermati, non farlo. Fermati Giovanni, stai rovinando per sempre due famiglie: la mia e la tua. Fermati Giovanni, stai uccidendo un uomo di 33 anni che ha una moglie e due figli piccoli. Fermati Giovanni, stai rovinando per sempre i tuoi giovani 18 anni e quelli dei tuoi amici. Fermati Giovanni, stai bollando per sempre l’intero mondo ultrà. Giovanni fermati, non farlo, ti prego: questo è un punto di non ritorno...».

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