Se abbiamo coraggio la guerra non vincerà

Chi nel ’900 ha cercato la pace è spesso stato tacciato di debolezza. Accade anche oggi con Ucraina, Gaza, Sudan. Per cambiare vanno ascoltate le vittime
December 14, 2025
Se abbiamo coraggio la guerra non vincerà
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Pubblichiamo un’ampia sintesi del capitolo che conclude il libro di Andrea Riccardi Il coraggio della pace, in libreria per Scholè (pagine 80, euro 10,00). Dopo il periodo seguito al 1945, le guerre nei Balcani, l’invasione russa in Ucraina e l’esplosione del conflitto nella striscia di Gaza hanno riabilitato la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, contribuito alla militarizzazione dell’opinione pubblica e alla corsa al riarmo. Riccardi invita a riscoprire il «senso di appartenenza a una comunità globale di destino» e ridare spazio al dialogo e alla diplomazia. Per fare della pace «l’obiettivo della politica».
Un libretto edito postumo nel 1933 del biologo René Quinton, Massime sulla guerra, apprezzato da Mussolini, che ne fece uso, ha al cuore questa frase: «La guerra è uccidere, non essere uccisi». Non si tratta di propaganda, ma d’un pensiero che si vuole scientifico sulla connaturalità tra guerra e umanità. C’è qui l’eco delle teorie di Darwin, la cui “lotta per la natura” era indicata all’inizio come “guerra di natura”. Nell’intreccio tra culto del coraggio e antropologia si crea una miscela pericolosa. La guerra è il destino dell’umanità: è nella natura dell’essere umano. È quanto sospettava in altra prospettiva, con la sua sensibilità fine e adolescenziale, Anna Frank, nascosta ad Amsterdam mentre si scatenava la caccia nazista all’ebreo. Scrive nel diario: «C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subito una metamorfosi, la guerra imperverserà». La Carta delle Nazioni Unite e la Costituzione italiana esprimono, dopo la guerra e la Shoah, la convinzione che tale metamorfosi sia possibile, anzi che fosse già in parte avvenuta. E oggi? Gianluca Sadun Bordoni, in un saggio recente, constata la fine della pax americana dell’era globale, lo sviluppo del revanscismo russo e l’ascesa cinese, quindi la chiusura d’una stagione in cui la pace è stata un ideale: «Ogni guerra – scrive – ha un inizio e una fine, ma l’avversione dell’uomo per l’uomo non terminerà mai». Nell’epoca attuale – osserva – assistiamo a due fenomeni: «Le relazioni internazionali mostrano il ritorno alla guerra […] chiudendo il breve interludio seguito alla guerra fredda, e le scienze antropologiche ci mostrano, in modo irrefutabile, che la guerra militarizzata è lo sviluppo di uno schema comportamentale che affonda le sue radici nella storia naturale della specie». Storia, attualità, antropologia confermerebbero che la guerra è compagna ineliminabile della vita. Sadun Bordoni non teorizza il determinismo, ma invita a non farsi illusioni. Scrive lo storico e letterato Alessandro Barbero, che si dichiara contro la guerra: «Il gioco della guerra è diffusissimo almeno tra i maschi. […] Per un maschio la guerra continua ad avere un certo interesse non dico primordiale o viscerale, ma certo molto forte, coinvolgente».
La realtà è che oggi la guerra appare come destino e la pace come una parentesi. La ricerca della pace, che sale lungo il Novecento e trova vero riconoscimento dopo la seconda guerra mondiale, non è forse debolezza? È un’accusa ripetuta: se si parla di pace nella guerra russo-ucraina, si è a volte tacciati di codardia o filoputinismo. L’Occidente è spesso accusato di codardia. Lo fece Alexander Solženicyn, non un mistico della morte, ma un grande resistente al totalitarismo sovietico che scoprì la libertà spirituale nel gulag. Esule negli Stati Uniti, fu invitato ad Harvard nel 1978 e di fronte a 20.000 persone scelse di parlare del declino del coraggio in Occidente, della perdita di forza nelle classi dirigenti e intellettuali: «Segno precorritore della fine». Del resto gli Stati Uniti non erano riusciti a sconfiggere Hitler da soli, ma aveva- no avuto bisogno di Stalin, «un nemico ben peggiore e più potente» – secondo Solženicyn. Che ve ne fate della libertà?, chiedeva a un pubblico che si aspettava che lodasse l’America, che l’aveva accolto con grande empatia. Gli Stati Uniti avevano abbandonato il Vietnam al Nord comunista nel 1973 con gli accordi di Parigi. L’Occidente – secondo Solženicyn – era ormai travolto dal declino del coraggio. Parole forti. Sì, declino del coraggio, ma quale coraggio in una situazione mondiale sull’orlo dell’abisso?
Guardiamo in faccia la guerra, che violenta l’Ucraina, che fa di Gaza un cumulo di rovine e di cui ci accorgiamo appena in Sudan. Come non condividere la folgorante definizione di papa Francesco sulla guerra? «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male». Qui parla il testimone della storia, che invita a guardare alla guerra come fallimento dell’umanità. E propone un metodo per non ignorare le guerre: avvicinarsi personalmente a loro. «Non fermiamoci su discussioni teoriche. […] Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia […] guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace». La pace di cui ancora godiamo ci consente la solidarietà con chi è aggredito. Anzi, ci obbliga a pensare nuovamente la pace, affinché la guerra non distrugga questo fragile mondo globale dilagando ovunque. Pensare la pace vuol dire alimentare una cultura di pace, perché l’opinione pubblica sia libera e attenta, non prigioniera di semplificazioni. Perché la guerra non ci domini con la sua logica spietata che non si riesce a interrompere. Per responsabilità verso chi è lacerato dai conflitti. Ragionare, riflettere, confrontare le diverse opinioni su questo tema non è perdita di tempo, ma preparazione di tempi migliori. Mai cedere alle semplificazioni amico/nemico, che ci sgravano dal pensare.
Il coraggio della pace è il coraggio di essere. Nel suo ultimo colloquio prima di morire, Erich Fromm così rispondeva alla domanda sui compiti decisivi per l’uomo d’oggi: «Il coraggio, il coraggio di vedere quali sono i pericoli che l’uomo ha di fronte e quanto pericolosa la strada che sta seguendo». E aggiungeva: «Credo che la cosa più importante sia […] il coraggio di dire che per l’uomo non c’è nulla di più importante dell’uomo stesso e che lo scopo più grande della sua azione è la stessa sua sopravvivenza, non solo biologica, ma spirituale. […] Se l’uomo non ha più speranza, allora non ha più possibilità di essere». (...) Giorgio La Pira, appassionato uomo di pace, si sentiva innanzi a una deriva apocalittica tra pace e guerra, più drammatica di quel che si pensava. Era il 1965. Non c’è stata l’apocalisse: ci sono stati invece uomini e donne che hanno scelto la via della convivenza e della pace. I sistemi di guerra e la cultura del conflitto umiliano la persona e il suo potere di essere e agire. Ma la scelta anche di uno solo ha un peso e una forza. Scriveva La Pira: «Bisogna avere il coraggio di scegliere la pace e agire a tutti i livelli (internazionali ed interni: militari, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici, religiosi) in conformità con questa scelta». (...) Un uomo, una donna non sono destinati all’irrilevanza, se hanno il coraggio di scegliere e di non essere indifferenti. La parola conflitto non diventerà il titolo del tempo che stiamo vivendo, se non per-metteremo all’odio e all’ignoranza di cambiarci. Diceva Pino Puglisi, che resistette a mani nude alla mafia e fu ucciso nel 1993: «Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto».

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