Pavia capitale
del Rinascimento

Un'importante mostra racconta la felice stagione intercorsa tra fine ’400 e la battaglia avvenuta nel 1525 che impose all’Italia il dominio spagnolo
October 19, 2025
Pavia capitale
del Rinascimento
Maestro delle Storie di Sant'Agnese (Ziliolo Mezzano?), “Presentazione al Tempio della Vergine”. Trieste, Museo della comunità greco orientale
Il 24 febbraio 1525 con la disfatta dei francesi e l’imprigionamento di Francesco I, nella battaglia di Pavia, l’Italia si avviò a cadere per secoli sotto l’egemonia spagnola, Carlo V preparò il suo trionfo e l’incoronazione imperiale a Bologna cinque anni dopo, ma per la città lombarda, prediletta residenza ducale, iniziò il declino. Nei decenni precedenti aveva però conosciuto una vitalità eccezionale, in continuo rilancio col cantiere della vicina Certosa, ribollente negli anni di Ludovico il Moro, con vertice verso il 1490. Una mostra assai ben orchestrata, “Pavia 1525. Le arti nel Rinascimento e gli arazzi della Battaglia”, curata da Laura Aldovini, Francesco Frangi, Pietro Marani e Mauro Natale, con sapiente selezione di opere appartenenti a generi diversi (pitture, sculture in marmo e in legno, miniature, xilografie, disegni, oreficerie), nella sale ariose del castello sforzesco, propone uno sguardo assai stimolante su quella congiuntura non sempre conosciuta come meriterebbe, quando Bramante lavorò al progetto grandioso di un nuovo Duomo, dominato da una cupola, banco di prova per l’ideazione di una nuova basilica di San Pietro a pianta centrale, di cui resta uno spettacolare modello ligneo, organicamente inserito nel percorso della mostra. Questa si conclude trionfalmente con la serie di arazzi celebranti la vittoria pavese di Carlo V, tessuti verso il 1530 a Bruxelles su cartoni di Bernard van Orley, donati dal principe Alfonso d’Avalos nel 1862 al museo di Capodimonte. Manifattura fiamminga suprema, incanta con infiniti dettagli di erbe e frutti, radici e canne palustri, screziature di marmi e increspature delle acque, dove annega il goffo dibattersi dei soldati e di truppe sterminate.
Ma non è solo la mostra degli arazzi della battaglia di Pavia. L’incipit dichiara subito i termini della via lombarda a un Rinascimento, al contempo iper-prospettico e prezioso, che nella concitata decorazione della Certosa di Pavia con vetrate, pale e affreschi aveva trovato uno dei suoi laboratori più alti. La ricostruzione del Polittico dei Dottori della Chiesa e degli Evangelisti di Ambrogio da Fossano, il Bergognone, per un altare della Certosa, ricomposto con la Madonna e il Cristo in gloria della collezione Borromeo, permette di apprezzare gli scorci acrobatici in cui il pittore si cimentò nei primi anni novanta del Quattrocento, posseduto dal demone bramantesco e stimolato da fiancheggiatori più giovani, come Zenale e Jacopino de’ Mottis, ma al tempo stesso è occasione unica per scrutare da vicino la pelle d’avorio, i troni alla certosina, le ombre trasparenti, le stoffe strisciate di oro. A fronte il coro di San Marino, pur più tardo, propone analoghe finezze di intarsio. E prima ancora i pannelli di Donato de Bardi, “comes papiensis” fattosi genovese, e la pala Bottigella del bresciano Vincenzo Foppa convocano i due padri fondatori di quella vera e propria scuola pittorica pavese che si sviluppò a cavallo dei due secoli. Da Susa è venuto il trittico dipinto per la Certosa dal de’ Mottis, rampollo di una famiglia di maestri vetrari che tradusse le novità di luce e di prospettiva in un intarsio surreale.
Questa strenua passione formale, che sorresse anche gli scultori amadeeschi, attivi in Certosa (Benedetto Briosco in testa) e in città, forse spiega i caratteri peculiari di un pittore pavese più moderno che trionfa nella zona centrale della mostra, il Maestro delle storie di Sant’Agnese, un allievo del peruginesco Bernardino Lanzani da San Colombano, che spiccò il volo e andò a Roma, in parallelo col giovane Gaudenzio Ferrari. In mostra si può tra l’altro ammirare una Presentazione al tempio della Vergine scoperta anni fa al Museo greco orientale di Trieste: un teorema di architetture classicheggianti colorate di rosa e di turchese, una regia teatrale che allontana la Vergine in fondo al tempio, inginocchiata ai piedi del sacerdote come Ester davanti ad Assuero, mentre in primo piano, come ali grandiose, duettano Anna e Gioacchino, rispondendosi da lontano con le mani giunte, in mezzo alle altre due Marie, a Cleofa e a Salome. Tanta sapienza compositiva, condita con un pizzico di bizzarria, fa il fascino indimenticabile dei suoi affreschi nella chiesa di San Teodoro, la cui visita sarebbe un’integrazione indispensabile della mostra. Su questo misterioso pittore, identificato da Stefania Buganza con Ziliolo Mezzano da Castel San Giovanni nel piacentino, che sarebbe stato ben rappresentato anche da una dimenticata pala con la Morte di Sant’Alessio dell’Accademia Albertina di Torino, aleggia la grande ombra di Bramantino, tradotto in parlata più festosa e colorata. Bartolomeo Suardi, a fianco dell’incisione Prevedari del suo maestro Bramante, è a mio avviso presente in mostra con un dipinto che considero fra le gemme della Pinacoteca Malaspina, con l’anconetta giovanile di Gentile da Fabriano e la citata pala Bottigella, una “Vergine delle rocce” con angeli musicanti e San Giuseppe, che può aiutare a ricostruire i suoi primi passi, prima dell’Argo del Castello Sforzesco, nel cantiere della Certosa, come allievo di Bramante in grado di tradurre il rigore e l’iperrealismo del maestro in una pittura crepitante come uno smalto o un cristallo, intaccati da ombre vere e vergati da fili d’oro.
La mostra apre poi finestre improvvise sulle incursioni pavesi di Leonardo, sulla pala di San Michele per la Certosa iniziata da Perugino e finita da Mariotto Albertinelli, su altri protagonisti poco noti come il pittore Bartolomeo Bonone, sui travasi fra miniatura e xilografie in libri a stampa, con la puntuale ricostruzione di Giovanni Siro Cattaneo, autore dei santini nella cornice dalla pala Bottigella, dovuta a Pierluigi Mulas. E infine chiude con un Compianto su Cristo morto struggente, venuto da Gambolò, “gran teatro” padano di un intagliatore pavese, Giovanni Angelo del Maino, la cui levatura è stata ben riconosciuta dagli studi, riepilogati da Marco Albertario: siamo ormai in piena maniera moderna, i moti dell’animo leonardeschi e la regia raffaellesca si riversano naturalmente nella concertazione potente di questi legni policromi, a sigillo di una stagione che fece grande Pavia sulla ribalta artistica italiana.

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