Frati mendicanti, i primi maestri di economia
Tra il XIII e il XV secolo l’economia diventa un tema di dibattito teologico e raggiunge un ampio pubblico: il saggio di Ughetti

Predicare l’economia, Luca Ughetti, Carocci, 2025.
I mercanti hanno sempre saputo che il mercato era una forma di reciprocità e di amicizia civile. Scambiare merci non era né più né meno civile che amministrare un comune o una confraternita. Chi invece lo sapeva molto meno erano i teologi, i vescovi e i papi, che, in base al principio che l’idea della realtà fosse superiore alla realtà, hanno raccontato e normato mercati, commerci, contratti e finanza mostrando una conoscenza piccola dei mercati e delle transazioni reali, troppo piccola perché l’intero medioevo e ancor più l’età moderna cattolica potessero conoscere una vera alleanza per il Bene comune tra laici e chierici, tra i documenti ufficiali della Chiesa e le scritture contabili dei mercanti e dei banchieri. Nei trattati morali di teologi e pastori della Chiesa si leggevano condanne a prestiti a interesse, ai profitti dei commercianti, come se nelle città reali si trovasse qualcuno che prestava denaro gratuitamente o che portava panni da Firenze a Parigi senza nessun guadagno.
Ma mentre teologi e dottori scrivevano manuali sulle monete, i mercanti dovevano lavorare. Tutti sapevano, inclusi gli autori dei trattati morali, che gli operatori economico-finanziari non lavoravano gratis, che ricorrere ai loro servizi costava, e che il prezzo da pagare per ottenere la merce-moneta si chiamava interesse, che era accettato da tutti gli operatori soprattutto se non era eccessivo. Tra il XIV e il XV secolo Venezia contava più di cento banchi, cristiani ed ebrei, Firenze settanta, Napoli quaranta, Palermo quattordici. La Chiesa era esperta di ambivalenze, anche di quelle economiche. Conosceva per nome i grandi banchieri in città, sedevano insieme nei consigli di governo, e soprattutto si avvalevano dei loro servizi. Tutto questo lo sapevano tutti, in particolare i cittadini, ma lo si diceva poco, anche perché chi scrive la storia, in genere intellettuali, sopravvalutano il peso dei libri e delle idee, e si dimenticano, o sottovalutano, che la realtà si impone con i suoi bisogni e i suoi desideri. Dall’alto delle loro cattedre e del loro latinorum, i teologi facevano calare proibizioni e vincoli che rendevano molto complicata la vita ai mercanti e alla gente, inclusi i mercanti onesti, e soprattutto quei poveri che in buona fede volevano tutelare.
Predicare economia di Ughetti si inserisce nel filone di studi, riaperto da maestri come Amleto Spicciani e Giocomo Todeschini, che pone al centro gli ordini mendicanti tra Duecento e seconda metà del Quattrocento, nel centro Italia (soprattutto Toscana, Umbria, Marche), per la comprensione della nascita dell’economia di mercato. Il libro è una raccolta di saggi (e quindi, per sua natura, le ripetizioni sono, quasi, inevitabili), e offre molti ispirazioni a chi ama conoscere meglio le radici dell’economia italiana europea, in particolare quello spirito del capitalismo meridiano precedente la Riforma, e quindi una narrativa diversa dalle analisi di Max Weber sulla etica protestante.
I primi protagonisti del libro sono due predicatori domenicani nella Firenze tra Duecento e Trecento, Remigio de’ Girolami e Taddeo Dini; segue poi una ampia analisi di alcune opere meno conosciuti di Bernardino da Siena e di alcuni suoi discepoli dell’Osservanza francescana, Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca (maestro di quel Marco di Montegallo, di cui abbiamo parlato più volte su queste pagine, in quanto fondatore di Monti di Pietà e di Monti frumentari).
I domenicani, lo sappiamo, erano meno aperti dei francescani (Olivi, Scoto) alla novità dei mercanti e dei mercati. La loro critica dei profitti e ancor più delle usure, emerge con forza dal volume: “Ogni usuraio pecca, e ogni peccatore è usuraio” (Remigio, p. 42). Interessante è scoprire la vasta gamma di animali e di bestiari usata per descrivere i peccati di mercanti e usurai: aquila, balena, serpente, asino, cani. I cani, fin da Gerolamo, era l’appellativo preferito per gli ebrei, che divennero l’immagine perfetta dell’usuraio - un forte e tenace anti-semitismo ha accompagnato la fondazione dell’economia di mercato, un aspetto cui il libro accenna ma sviluppa poco.
Importanti le pagine su Bernardino, che è caratterizzato dall’ambivalenza, che è la stessa del suo tempio. In certi testi il grande predicatore senese mostra importanti aperture verso il mercato e i mercanti, se la loro attività soddisfa la sei condizioni indicate dalla teologia e dal diritto medioevale: persona, causa, tempo, luogo, consorzio, modo. A queste sei note morali, Bernardino, rifacendosi (con una certa creatività) a Scoto, ne aggiunge una settima: il danno comune, che è una sua versione in negativo del bene comune. In quei sermoni troviamo sempre parole di condanna senza eccezioni per le usure, ma alcune buone parole nei confronti del commercio, come quando Bernardino usa persino metafore economiche per parlare della Salvezza (“Dio mercante”), e della “mercantia amoris” (p. 92). Ma troppo spesso Bernardino trascurava un dato che lui stesso e gli altri predicatori sapevano molto bene: che i grandi mercanti e i grandi usurai erano spesso le stesse famiglie che venivano tollerati in quanto banchieri grazie alle loro filantropia in quanto mercanti. Si pensi, su questo, ad uno dei messaggi del ‘Mercante di Venezia’ di Shakespeare: Antonio, mercante, che interpretava la parte della vittima e che si vantava di prestare gratis, mentre a Shylock, usuraio, spettava quella del carnefice - una tesi che Shakespeare mette in discussione.
All’analisi di questa settima condizione di Bernardino, Ughetti dedica molte pagine, dalle quali emerge la radice della sostanziale diffidenza dei predicatori medioevali nei confronti dei mercanti. Si trova nell’ipotesi teorica, implicita ma chiara e forte (anche se Ughetti non ce lo dice), che i commerci si svolgano in una costante condizione di quella che noi chiameremmo oggi ‘asimmetria informativa’, dove il mercante è la parte più informata e abusa delle sue conoscenze per truffare il popolo semplice. Questo emerge chiaramente dal bernardiniano Giacomo della Marca, quando, negli anni 1440-1450, in una questio del suo Quaresimale, elenca i trucchi truffaldini di un commerciante (Mastro Bartolomeo): “Primo si è del numerare, di colui che conta e inganna; che nel contare tanto a fretta viene a fare sbalordire colui o colei che riceve i denari: perché il suo contare ha fretta (“to’ to’ to’ to’ uno, due, tre, cinque, sette, otto, dieci, tredici, quattordici, diciassette, diciannove, venti”) e la donnicciuola che non ha tanto intelletto, si crede che siano quelli che tu dici e riceveli come tu le dai, e va a casa e comincia a contare a quattrino a quattrino e trovasi essere ingannata di tre soldi!” (p. 218). Questa ipotesi, che certamente qualche volta e in certi mercati spesso si verifica, veniva da quei frati estesa a regola generale delle transazioni. Da qui la loro conclusione che quello del rigattiere non fosse un lavoro lecito perché non utile al bene comune (cioè al bene del comune, cioè della città), perché basato su quegli imbrogli.
I mercanti erano ben coscienti che spesso il mutuo vantaggio era asimmetrico (+4, +1) per i molti rapporti di forza e di informazioni, ma anche ieri raramente chi accettava uno scambio lo faceva perdendo intenzionalmente ricchezza e utilità; anche perché gli scambi erano ripetuti, le persone tornavano e c’erano effetti reputazionali importanti. Ma quando il contratto arrivava a generare un segno meno da qualche parte del contratto (+1;-1, +4;-1…), gli operatori sapevano benissimo che si stava uscendo dall’economia e si entrava nel furto, si lasciava la fisiologia e iniziava la patologia del mercato. E per queste azioni sbagliate si confessavano, chiedevano perdono e restituivano ogni tanto il maltolto, magari nei giubilei o in punto di morte, come ci ha raccontato quasi un secolo fa Armando Sapori. Nell’ambito finanziario l’asimmetria è molto grande, e per questo era seguito dalle leggi con grande attenzione, ma anche qui c’era un ampio raggio di area di mutuo vantaggio, che tutti conoscevano molto bene – e non erano rare le proteste della gente quando le autorità civili e religiose espellevano gli ebrei e i loro banchi dalle città medievali e moderne. Anche in alcune pagine di Bernardino il mutuo vantaggio nei mercati emerge, ma in tante altre è negate, alimentando l’idea di mercanti (i piccoli soprattutto) come ladri e imbroglioni, da guardare con diffidenza.
E sulla base di questa parziale teoria del valore, Giacomo della Marca costruisce tutta una casistica, che farebbe impallidire le attuali borse valori, dove il “modo” del contratto non deve essere “Malignus, Falsus, Infedelis, Iniustus, Crudelis” (p. 214), e poi venti speci di queste cinque generi (dall’inviluppare al falso cambiare). Sempre nel Quaresimale troviamo un altro suo ipotetico dialogo con il mercante che rivendicava la liceità del suo lavoro perché “nutriva la città”, e a questa tesi così ribatteva: “La prima motivazione è con ogni evidenzia falsa, poiché non ho mai visto alcuno morire di fame se non chi è in carcere per debiti o chi viene spogliato dei propri beni, dato che Dio dà nutrimento agli uomini” (p. 221).
Leggendo questo libri ed altri simili ci accorgiamo che l’economia di mercato in Italia e in Europa è riuscita a svilupparsi nonostante l’azione dei predicatori. I mercanti e i banchieri non hanno ascoltato le casistiche dei predicatori, hanno cercato di continuare a lavorare, anche perché molti altri francescani, mentre i loro colleghi professori di teologia scrivevano trattati in latino, erano amici dei mercanti, loro confessori, li incontravano nei terz’ordini, e li incoraggiavano oltre i divieti e le condanne dei trattatisti e predicatori. Ma soprattutto i mercanti e gli operatori economici hanno sviluppato, nei paesi cattolici, una doppia morale che è ancora alla base di tante anomalie latine, dai condoni all’evasione diffusa. Non siamo stati capaci di generare una vera cultura di fiducia tra mercato, religione e città, e anche per queste ragioni nella nostra bella Costituzione repubblicana non troviamo le parole imprenditore, mercato, banca.
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