Boezio, 1500 anni fa la condanna a morte. E il silenzio di Cassiodoro
Il filosofo romano giustiziato a Pavia fu vittima di un’accusa infondata, come osserva il medievista Ghisalberti

Il 23 ottobre la Chiesa ha celebrato la festa liturgica di san Severino Boezio, canonizzato come martire da Leone XIII. Lo ha fatto nel giorno presunto della sua morte, millecinquecento or sono, quando - mandante il re ostrogoto Teodorico il Grande - venne giustiziato a Pavia, non lontano dalla basilica di San Pietro in Ciel d’Oro dove ora, nella cripta, in un’urna recentemente restaurata, le sue spoglie oggetto di indagini affidate dalla diocesi all’antropologa forense Cristina Cattaneo, riposano insieme a quelle di sant’Agostino e di re Liutprando. Se è vero che al ricordo del XV centenario dell’esecuzione del grande filosofo romano, a Pavia, forse, si è preferito dare maggior lustro al V centenario della battaglia che lì segnò una svolta nell’assetto politico europeo (ma un importante convegno di tre giorni si è tenuto in settembre su iniziativa della Fondazione Regit - Centro di ricerche sul Regnum Italicum), è pure vero che Boezio – la cui data di esecuzione per alcuni potrebbe essere spostata di un anno – resta ancora una figura più famosa che realmente conosciuta.
Eppure i motivi per scoprirlo o riscoprirlo non mancano. Pochi come lui hanno coltivato il sogno di custodire l’eredità culturale dei Greci e dei Romani – “religione di Pietro” compresa – nell’ordine creato dai popoli germanici. Poche altre opere come le sue hanno influenzato la filosofia cristiana medievale. E cosa dire poi dei cinque libri, in prosa e versi, vergati nei mesi della prigionia, che sotto il titolo De consolatione philosophiae, hanno costituito una mirabile riflessione – connubio di valori socratici, stoici, ma pure del nascente cristianesimo – sulla provvidenza e la sofferenza, il bene e il male, l’amore della patria e la convivenza pacifica, la felicità e la morte?
Una morte che per lui, magister officiorum di Teodorico, vittima sacrificale di un intrigo, fu inattesa «dopo un’accusa di tradimento, in un contesto particolare, con una esecuzione eseguita a Pavia nel 525, senza che si fosse svolto un vero processo», come ricorda Alessandro Ghisalberti, già professore ordinario di filosofia teoretica e di storia della filosofia medievale all’Università Cattolica di Milano. E proprio Ghisalberti, autore di apprezzati saggi su Boezio è tornato a parlare di quello che ritiene «il primo intellettuale del Medioevo» soprattutto nei suoi rapporti con Cassiodoro al recente convegno veronese sul celebre monaco calabrese, organizzato dall’Associazione Cassiodoro il Grande, presieduta da don Antonio Tarzia. Lì il medievista ha rialzato il velo sulla mancata difesa di Boezio da parte di Cassiodoro durante la destituzione e dopo la condanna a morte dell’uomo che diceva di ammirare, accusato di aver sostenuto un senatore in presunte comunicazioni con l’imperatore bizantino Giustino I, analizzando innanzitutto il contesto storico.
«Entrambi gli uomini erano attivi nella corte di Teodorico, un re ostrogoto che cercò di mantenere un delicato equilibrio tra i suoi sudditi goti, seguaci dell’arianesimo, e la popolazione romana, seguace del cattolicesimo niceno. Boezio era un uomo di profonda erudizione filosofica e un convinto sostenitore dell’unità del senato e della tradizione romana, ma, accettando di trasferirsi a Ravenna, fu anche fautore di una politica di integrazione della cultura romana con quella gotica. Cassiodoro, prima di occuparsi di temi filosofici e teologici, era più focalizzato sulla gestione amministrativa e la preservazione della cultura romana all’interno del nuovo ordine», spiega Ghisalberti. E aggiunge: «Teodorico negli ultimi anni del suo regno - morì nel 526, un anno dopo Boezio - si trovò a dover affrontare tensioni crescenti tra le sue politiche filo-romane e l’opposizione gotica, in un contesto che rende la posizione di Boezio e Cassiodoro particolarmente complessa». Già, quali furono - insistiamo - i motivi del silenzio di Cassiodoro, in quel momento con un ruolo di spicco nella corte di Teodorico? Questo il riassunto delle possibili interpretazioni secondo Ghisalberti. «Per diversi studiosi, tra cui James J. O’Donnell, Cassiodoro potrebbe aver ritenuto che intervenire in favore di Boezio avrebbe messo a rischio non solo la propria posizione, ma anche la fragile pace tra Romani e Goti. Dunque una scelta strategica, consapevole dei limiti del suo potere in una situazione critica. Altre interpretazioni, come quella di Arnaldo Momigliano, ci ritraggono un Cassiodoro, ben consapevole delle dinamiche di potere della corte teodoricea, suggerendo che potrebbe aver giudicato inutile o persino dannoso intervenire a favore di Boezio in una situazione già compromessa. Peter Heather dal canto suo evidenzia come la corte di Teodorico fosse un ambiente conflittuale, dove anche le accuse di tradimento potevano essere strumentalizzate per eliminare avversari politici, interpretando il comportamento di Cassiodoro come una forma di realpolitik, in cui il suo silenzio garantiva la sopravvivenza delle sue iniziative». E l’ipotesi di Ghisalberti? Il professore attribuisce la mancata difesa di Boezio ad una combinazione di fattori che elenca dettagliatamente: «La posizione politica a Ravenna era diventata incandescente a partire dal 523, anno della morte di papa Ormisda, con cui la corte gota aveva buone relazioni; il suo successore Giovanni era apprezzato negli ambienti romani filo-bizantini; sempre nel 523 l’imperatore Giustino I aveva emanato un editto che metteva al bando l’arianesimo in tutto l’Impero». Forse questo il dato scatenante? «Sì, questo: l’inquietudine di Teodorico, che professava il cristianesimo nella forma ariana e si sentì minacciato nella sua posizione, oltre che dalla Roma cattolica, anche dall’Oriente, sino allora coperto da un compromesso in tema di religione. A partire dal 484 infatti era stato siglato dal patriarca di Costantinopoli Acacio e dall’Imperatore Zenone un trattato, detto Henotikon, in cui si raggiungeva un compromesso che intendeva riunire i monofisiti e i cattolici. Finché rimase in vigore questo compromesso, Teodorico si rapportò in modo tranquillo con il clero romano, ma con l’editto antiariano di Giustino, e l’abolizione dell’Henotikon, sopravvennero preoccupazioni». E cioè: «Teodorico, che aveva nominato Boezio magister officiorum, certamente sollecitato dalla parte gota della sua corte, cominciò a diffidare dai senatori cattolici, pronto a reprimere ogni tentativo di collaborazione con Roma e con l’Oriente. Avvalorò le accuse al senatore Albino, e quando Boezio intervenne in difesa di Albino, a sua volta fu accusato, con il suocero Simmaco, di avere inviato una lettera a Giustino. Genero e suocero vennero così condannati a morte». Insomma, un case history che invita a riflettere su un tema sempre attuale quando sulla bilancia da una parte stanno i principi morali, dall’altra le necessità pratiche. Ecco allora Cassiodoro con l’impegno per la preservazione del sapere, ecco Boezio, martire della verità per la giustizia. «Due risposte diverse ma complementari alle sfide del loro tempo», conclude Ghisalberti. Un tempo che è un po’ anche il nostro.
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