venerdì 13 agosto 2021
Fu rubata nell’ottobre del 1969: le ricerche più recenti provano che fu dipinta a Roma e non a Palermo. Le tracce del furto portano dalla mafia alla Svizzera Un saggio fa il punto
La “Natività” di Caravaggio rubata a Palermo nel 1969 (particolare)

La “Natività” di Caravaggio rubata a Palermo nel 1969 (particolare) - Ansa

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Da oltre cinquant’anni molti si chiedono che fine abbia fatto la Natività dipinta da Caravaggio, rubata nell’ottobre 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo di Palermo. Nel 2015, quasi come conclusiva elaborazione di un lutto, là dove oggi resta il vuoto venne stata tentata una «ricostruzione» tecnologica che era anche il punto di arrivo di un documentario intitolato Operazione Caravaggio prodotto da Sky Arte. Una «felice illusione, mentre il corpo dell’opera giace chissà dove, come molti morti di mafia» scrisse Vittorio Sgarbi. Giace chissà dove: è quello che continuano a ripetersi tutti coloro che sperano la Natività possa, prima o poi, riapparire. Come si fa a rassegnarsi a una perdita del genere? Ora Michele Cuppone, ricercatore e esperto del Caravaggio, che in questa veste collabora anche al volume di Sgarbi sull’Ecce Homo di Madrid di cui parliamo in questa pagina, fa il punto sulle più recenti scoperte documentarie. In Caravaggio, la “Natività” di Palermo( Campisano, pagine 128, euro 30) lo studioso ripercorre le scoperte documentarie che oggi consentono di dire con una certa sicurezza che l’opera non fu dipinta in Sicilia, bensì a Roma e probabilmente mentre Caravaggio lavorava nella Cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi. Nel 1971 Gian Lodovico Masetti Zannini rinvenne un contratto datato 5 aprile 1600 nel quale Caravaggio, in casa di Alessandro Albani, s’impegnava a dipingere un quadro « cum figuris » tramite la mediazione del mercante senese Fabio Nuti che i documenti emersi recentemente pongono in relazione con la Compagnia di San Francesco, confraternita palermitana composta da laici, a cui verrà indirizzata l’opera da Roma: il pittore la consegnò il 20 novembre dello stesso anno come attesta il saldo dei 200 scudi pattuiti. Il contratto venne sottoscritto con tutti i crismi, incluso una sorta di “sbozzo” che Caravaggio eseguì e venne approvato dal committente. Nell’atto si indicavano anche le misure (12 palmi in altezza, 7/8 in larghezza) che poi, verificate nel 1982 dallo storico americano Alfred Moir, si rivelarono corrispondere abbastanza bene alla Natività di Palermo, più larga però di 18 cm al- la base (il quadro misura infatti 268 cm d’altezza e 197 di larghezza). «Ma è uno scarto che non ci scompone: le dimensioni erano state indicate con una certa elasticità e approssimazione» commenta Cuppone. In ogni caso, nel 2011 Maurizio Calvesi, massimo studioso del Caravaggio, confermò l’ipotesi di Moir. Cuppone, in particolare, sostiene la forte identità somatica fra la Madonna della Natività e la Giuditta del quadro Barberini del 1602. Stessa modella, insomma. L’ipotesi che sia l’opera citata nel contratto è oggi accettata da alcuni dei maggiori studiosi del Caravaggio, e sostanzialmente fa abbandonare la pista siciliana, intanto perché lo stile non corrisponde alle opere di quel periodo (1609), mentre torna invece con una certa coerenza con quello degli anni romani che ruotano sul Giubileo e successivi. Inoltre, a tutt’oggi, non ci sono prove di un soggiorno palermitano mentre è accertata la presenza di Caravaggio a Siracusa e Messina. Altri confronti Cuppone svolge a proposito delle tele usate da Caravaggio a Roma e in Sicilia, che sono tagliate e tessute diversamente: assai rada quella della Natività, piuttosto fitta invece quella delle opere siciliane come il Seppellimento di Santa Lucia, la Resurrezione di Lazzaroe l’Adorazione dei pastori. Nell’ultimo decennio è emerso dalle ricerche di Giovanni Mendola che Nuti ebbe rapporti stretti con Palermo, con transazioni finanziarie che forse riguardano anche la commissione caravaggesca. Cuppone conclude: «La Natività, acquistando maggiore centratità nel corpus caravaggesco e ponendosi in un momento chiave della carriera del Merisi, accanto ai più celebri e frequentemente indagati laterali Contarelli, dovrà essere maggiormente rivalutata negli studi...». Veniamo brevemente al giallo del furto. La vicenda è sempre stata messa in relazione con la mafia, ma forse c’è dell’altro. L’opera fu rubata con una certa tranquillità in un giorno della seconda decina di ottobre (il luogo era poco sorvegliato, si teneva la Messa una volta a settimana) e venne staccata dalla cornice e dal telaio con una lama che tagliò la tela con precisione senza intervenire sulle zone del colore (la pala era stata restaurata per la mostra di Caravaggio che Longhi allestì nel 1951 a Milano ed era ritornata a Palermo rintelata). Pare che i ladri l’avvolgessero dentro un tappeto trovato in loco, ma durante il trasporto e vari trasferimenti, secondo le dichiarazioni dei pentiti, subì uno strappo violento e un anonimo testimone dichiarò di averci anche camminato sopra. Ci furono vari contatti per piazzarla o per avviare una trattativa con lo Stato (un pool di storici, pare, fu fatto arrivare a Palermo nel 1971, tra questi Zeri, Briganti, Trombadori e Maurizio Marini che, in quanto più giovane tra loro, venne incappucciato e condotto a vedere l’opera, che giudicò in buone condizioni, ma poi non se ne fece nulla). Varie le notizie depistanti fornite da collaboratori di giustizia come Giovanni Brusca che propose uno scambio purché fosse alleggerito il regime del 41 bis, ma il caso pare non sussistere. La pista più credibile, secondo la Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, sembra quella del pentito Francesco Marino Mannoia, che ebbe parte nella vicenda. La notizia del furto attirò l’attenzione di Gaetano Badalamenti, capo delle famiglie mafiose siciliane, il quale incaricò Gaetano Grado di trovare la tela: «la mafia arrivò dove lo Stato non riuscì: in pochi giorni dal furto, con un efficiente passaparola, essa raggiunse uno dei ladri» commenta tristemente Cuppone, e l’opera venne ceduta agli uomini d’onore per pochi milioni di lire. «U’ Caravaggiu » finì dunque in casa Badalamenti e partirono richieste di riscatto ma anche negoziati con un mercante svizzero, e l’opera forse prese quella via, in vista di passare in America oppure di essere fatta a pezzi per venderla più facilmente sul mercato. Qui la storia si allontana dalla mafia e prende le strade della ricettazione internazionale (fu sospettato, tra gli altri, anche il barone Thyssen-Bornemisza, pista poi caduta). Le ultime evocano un antiquario svizzero il cui nome resta segreto. Il reato di furto intanto è finito in prescrizione. Se l’opera esiste ancora, si può sperare in uno scambio «vantaggioso »: poco importa se per chi la possiede o per lo Stato. Certo alla nostra anima nazionale ne verrebbe un gran bene, per una volta tra i tanti segreti che pesano sul nostro Paese almeno questo avrebbe un lieto fine.

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