venerdì 26 maggio 2017
Si afferma la tendenza a usare per concepire figli in provetta seme, ovociti e pance di consanguinei (fratelli, sorelle, madri) per superare l'infertilità. L'allarme di un'istituzione scientifica Usa.
Pance e gameti donati in famiglia: è la «riproduzione collaborativa»
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Riportando il pensiero del grande antropologo Lévi-Strauss, George Steiner spiegava che «possiamo proibire solo ciò che il nostro vocabolario e la nostra grammatica sono abbastanza ricchi ed esatti da designare». E chissà cosa avrebbero detto i due studiosi leggendo l’ultimo documento del Comitato etico della «American Society for Reproductive Medicine», che cerca invano di descrivere le nuove parentele che si formano con alcuni percorsi di fecondazione assistita, e non ci riesce, perché usa termini oramai desueti e inadeguati, tipici del Mondo Vecchio dove i bambini, semplicemente, nascevano da un papà e da una mamma. Un documento che con efficacia drammatica rivela il vicolo cieco in cui ci siamo irrimediabilmente cacciati, quello di un Mondo Nuovo in cui stiamo svuotando di significato termini come padre, madre, zio, sorella, cugino, nipote: parole che da sempre definiscono le relazioni fondanti della parentela umana, quelle che ci permettono di dire "io". Un Mondo Nuovo in cui abbiamo costruito nuovi legami genetici e familiari, impensabili finora, tanto che non esistono neppure termini specifici per descriverli.
Stiamo parlando del documento «Using family members as gamete donors or gestational carriers» (Usare componenti della famiglia come donatori di gameti o gestanti portatrici), che si occupa di quelle particolari combinazioni di fecondazioni in vitro per cui la coppia che ha bisogno di gameti o uteri in affitto se li procura in famiglia, fra i parenti più stretti. C’è un’espressione precisa per indicare tutto questo: «riproduzione collaborativa» o «riproduzione con terzi», e può essere di tipo «intragenerazionale», cioè nella parentela «orizzontale» – fra sorelle in cui una cede ovociti all’altra, o tra fratelli per i gameti maschili, o fra cugini o comunque persone della stessa età – o «intergenerazionale», cioè nella parentela verticale: una figlia che cede i propri ovociti alla madre, una madre che fa da surroga per la figlia, un figlio che cede il suo sperma al padre, e via dicendo.

Il sospetto di incesto


Il problema che si pone il Comitato etico è sulla «riproduzione collaborativa» fra parenti di primo grado, che in alcuni casi può «creare l’impressione di un incesto o della consanguineità». In una tabella drammaticamente istruttiva gli autori dell’articolo elencano le possibili situazioni che si possono creare, limitatamente al primo grado di parentela: per esempio possono ricordare forme incestuose quelle situazioni in cui un uomo cede il proprio sperma a sua sorella, la quale a sua volta usa ovociti di una donatrice. Nella tabella per ogni situazione individuata viene anche illustrata la «risultante relazione genetica e sociale della prole», che nel caso appena descritto corrisponde a questo: «La madre che si prende cura è quella gestazionale, ma non ha relazioni genetiche con la prole; lo zio sociale è il padre genetico; alcuni cugini sono fratellastri; la maggior parte delle altre parentele è invariata».

Sorella, zia o madre?


Se invece – altro esempio – una sorella dà il proprio ovocita per farlo fecondare con lo sperma del marito del fratello – perché le coppie possono anche essere di persone dello stesso sesso – e, vista l’occasione, fa pure da madre surrogata, allora la sorella sarà madre genetica, gestazionale e anche zia sociale del nato. Questa combinazione viene definita accettabile, perché in tal modo «il bambino può avere una relazione genetica con ognuno dei due padri». Al contrario, dovrebbe essere proibita la combinazione in cui la sorella dona i suoi ovociti alla cognata – moglie del fratello – perché in questo caso c’è una «forte impressione di incesto». Potremmo continuare per un bel pezzo, visto che sono elencate undici diverse combinazioni per la donazione di gameti – sette per lo sperma e quattro per gli ovociti – e sei diverse possibilità per l’utero in affitto.

Un salto nel buio


Secondo gli autori del documento, la «riproduzione collaborativa» ha indubbi vantaggi: riduzione dei costi e dei tempi di attesa, e soprattutto la possibilità di preservare in qualche modo il patrimonio genetico familiare (ma non ci avevano detto che conta solo l’amore?). I dubbi, però, prevalgono: il Comitato ribadisce che non si conoscono le conseguenze psicologiche ed emotive sui nati dalla «riproduzione collaborativa» e ammette anche che «l’importanza dell’obiettivo di preservare il legame genetico può essere messa in discussione quando la combinazione riproduttiva diventa così straordinario e complesso».

Impressiona l’evidente imbarazzo con cui gli autori del documento cercano di spiegare i nuovi legami, usando giri di parole e frasi tanto contorte da rendere difficile orientarsi nella lettura. E indirettamente dichiarano la loro impotenza quando chiedono alle leggi degli Stati di stabilire le linee ereditarie rispetto ai vari soggetti della «riproduzione collaborativa» qualora questi morissero senza fare testamento. Come a dire: a cose fatte, qualcuno dovrà pur dire chi sono queste persone.

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