giovedì 3 febbraio 2022
Parla l’ematologa Maria Paola Martelli, a capo dell'équipe che a Perugia si batte contro la leucemia mieloide acuta, madre di quattro figli
L’ematologa Maria Paola Martelli con il suo gruppo di ricerca all’Università di Perugia

L’ematologa Maria Paola Martelli con il suo gruppo di ricerca all’Università di Perugia

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«La nostra ricerca mira a colpire la leucemia mieloide acuta in modo innovativo e senza chemioterapia, per rendere la cura più tollerabile da parte degli anziani, che sono la fascia di popolazione più colpita dalla malattia».

Maria Paola Martelli, docente di Ematologia all’Università di Perugia e responsabile di una sezione del reparto di Ematologia con trapianto all’Ospedale Santa Maria della Misericordia, ha speso tutta la vita di medico e ricercatrice a combattere la leucemia mieloide acuta. È a capo di un progetto finanziato dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc), e su un altro progetto ha ottenuto un finanziamento dello European Research Council.

Quando nasce il suo progetto?

Mi sono specializzata in Ematologia alla Sapienza di Roma con Franco Mandelli. In reparto e in ambulatorio, da giovane medico, ho avuto la possibilità di seguire tutte le patologie del sangue, ma soprattutto la leucemia mieloide acuta. A differenza delle forme linfoblastiche acute, tipiche dell’età giovanile e oggi curate con un alto tasso di guarigione grazie alle polichemioterapie, la leucemia mieloide acuta è caratteristica dell’adulto e dell’anziano. Insorge per lo più dai 40 anni, ma l’età media alla diagnosi è intorno ai 70. A differenza delle forme linfoblastiche del bambino, è caratterizzata da una minore percentuale di successi: molti pazienti sono anziani, spesso con altre patologie. Risulta quindi difficile utilizzare chemioterapie. E l’insuccesso è dietro l’angolo. Occorre ancora tanta ricerca.

Quale strategia avete adottato?

Il nostro approccio vuole colpire punti deboli specifici della malattia, che non è unica: se ne distinguono diversi tipi a seconda della lesione genetica che la origina. Si tratta quindi di sviluppare una medicina di precisione, che trasformi quella specifica mutazione nel punto debole della malattia. Attraverso successivi screening di farmaci, siamo arrivati a testarne due, l’omacetaxine e il venetoclax (approvati per l’impiego in altre malattie oncoematologiche) per un’azione sulla leucemia mieloide acuta con mutazione del gene chiamato nucleofosmina (NPM1). Prima sono stati impiegati in laboratorio, poi nel modello animale (topo) e ora è attivo il protocollo clinico di fase 1 nel nostro Istituto. Tutti gli studi, da tre anni, sono stati sostenuti da Airc ed è stato approvato un ulteriore finanziamento per due.

Medico e ricercatore: sono due facce della stessa medaglia?

Sin dagli anni della specializzazione in Ematologia ho vissuto le difficoltà di combattere patologie aggressive che portano a tanti insuccessi. Poi ho fatto un dottorato di ricerca ai National Institutes of Health di Bethesda (Stati Uniti) per studiare la risposta immunitaria nei confronti delle patologie oncologiche. Tornata in Italia ho concepito la mia professione di medico come inscindibilmente legata alla ricerca, soprattutto quella traslazionale per portare i risultati al letto del paziente. Ho vinto un concorso per ricercatore a Bari, negli anni successivi alla scoperta – da parte del gruppo di Perugia coordinato da Brunangelo Falini – della mutazione della nucleofosmina come causa più frequente nella leucemia mieloide acuta. Ho quindi alternato attività clinica e collaborazione nella ricerca tra Perugia e Bari, prima di tornare in Umbria, dove il laboratorio si stava ingrandendo. Qui ho proseguito la mia attività di ricerca, a fianco di Falini, in tanti progetti sostenuti dall’Airc.

Ora come è composto il suo gruppo di ricerca?

Medici, biologi e biotecnologi, tra cui molte donne: in totale una quindicina di persone. I ricercatori in laboratorio hanno tra i 26 e i 40 anni, i medici fra i 30 e i 34. Sono dedicati a specifici progetti: uno è quello di Airc, l’altro è sostenuto da un finanziamento che ho vinto dallo European Research Council, che si sta concludendo, ma lavoriamo per ottenere nuovi fondi. Purtroppo in Italia i giovani ricercatori hanno difficoltà a essere stabilizzati, hanno stipendi non adeguati e qualche volta abbandonano la ricerca se ottengono altri posti di lavoro più solidi. Quindi compito del coordinatore del progetto è attivare un circolo virtuoso: più si fa ricerca, più si ottengono risultati che permettono di partecipare a bandi per nuovi finanziamenti.

Quali sono le difficoltà maggiori che ha incontrato?

Per il medico non è sempre facile gestire le sconfitte nell'attività clinica: il paziente che si risolleva ti dà energia, quando invece soccombe provi dolore e impotenza. Ma aiuta la fiducia che si percepisce nei malati, quando sanno che il medico che li cura fa anche ricerca. Il loro sorriso e la loro gratitudine per ciò che fai come persona, medico e ricercatore vanno oltre il successo o l’insuccesso. L’aspetto fondamentale è la motivazione: anche se non ogni ipotesi di lavoro si rivela vincente, ho sempre avuto una forte spinta a insistere con la ricerca per ottenere risultati per i malati. La motivazione è necessaria anche per mantenere l’equilibrio tra lavoro e famiglia: ho quattro figli, nati tra il 2000 e il 2004 (l’ultimo è stato un parto gemellare): devo ringraziare innanzitutto loro e mio marito, e il supporto dei miei genitori, dei miei suoceri e di una ragazza che ci ha affiancato per anni.

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