lunedì 24 luglio 2023
Il punto di non ritorno è il consenso prestato prima della fecondazione e la formazione dell'embrione. Il caso di un uomo che voleva impedire all'ex moglie di tentare la gravidanza
Il laboratorio di un centro avanzato di Procreazione assistita

Il laboratorio di un centro avanzato di Procreazione assistita - IMAGO ECONOMICA

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Una di quelle «scelte tragiche» in cui non è possibile soddisfare pienamente tutti i «confliggenti interessi coinvolti». Ma almeno i principali, sì. L’interesse di una donna a diventare madre dopo aver messo a rischio la propria salute e aver investito corpo e mente su un progetto di genitorialità. L’interesse - se così si può dire - di un embrione a conservare la sua dignità e di non restare per sempre congelato nel freezer di una clinica. La sentenza della Corte Costituzionale resa nota ieri conferma quello che già è chiaro nella Legge 40 sulla Procreazione medicalmente assistita (Pma). Un uomo non può rifiutarsi di diventare padre dopo che il suo seme ha fecondato l’ovulo della sua compagna e dunque si è formato l’embrione. Il consenso espresso in modo formale e consapevole prima del trattamento non è revocabile. Nemmeno se sono trascorsi anni, nemmeno se la coppia non è più tale.


Ed è proprio questo il caso di cui si è dovuta occupare la Corte Costituzionale: A.C. ha chiesto il trasferimento in utero di un embrione formato in precedenza con il marito e crioconservato nella clinica che li aveva in cura. D.R., diventato nel frattempo un ex marito, si è opposto, ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre contro la sua volontà. I giudici del Tribunale di Roma hanno quindi investito la Consulta di una questione di legittimità riguardante l’articolo 6, comma 3 ultimo periodo della legge 40 (“La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti fino al momento della fecondazione dell’ovulo”). Ed ecco il responso, redatto dal giudice Luca Antonini: no, il consenso dato è irrevocabile, non ci si può rifiutare di diventare padri una volta che si è concepito un figlio, ancorché in provetta.


Interessanti le motivazioni della decisione. La donna ha compiuto «un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze. Essa è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo». La Consulta riflette sul fatto che la donna viene sottoposta a «impegnativi cicli di stimolazione ovarica, che possono portare malattie, anche gravi. Come nella fattispecie esaminata, poi, possono essere necessari, successivamente alla fecondazione dell’embrione (e alla sua crioconservazione), ulteriori trattamenti farmacologici e analisi» in vista del trasferimento in utero, mai avvenuto perché il marito ha abbandonato la casa coniugale.

Da tutto questo procedimento molto impegnativo sorge «una «concreta aspettativa di maternità». La donna, insomma, si è fidata del consenso prestato dall’allora partner «al comune progetto genitoriale», che non può andare in frantumi con una semplice revoca del consenso. La Consulta parla anche della “dignità” dell’embrione in quanto «ha in sé il principio della vita» e che, aggiungiamo noi, non può essere considerato una semplice “cosa” di cui disporre o meno, indifferentemente, o da abbandonare in congelatore perché chi l’ha concepito ha cambiato idea.

Il consenso alle “tecniche” di Pma è quindi una sorta di punto di non ritorno per l’uomo, al di là di quello che può accadere negli anni successivi della sua relazione con la donna. Ma questo ha un senso, come ribadisce la Corte Costituzionale, ben consapevole peraltro di tutto l’insieme di doveri che nascono con la paternità: tra libertà e responsabilità, vince la seconda. Un punto di non ritorno, dicevamo, ma anche un punto fermo: per la dignità dell’embrione, cioè vita umana, che non si può creare in laboratorio fatta salva la possibilità di “ripensarci”, e per la tutela della salute fisica e psichica della donna. Dunque, la libertà e l’autodeterminazione dell’uomo, davanti a una prospettiva di paternità raggiunta con la Pma, vengono compressi «in modo non irragionevole» (sic). Per inciso, lo stesso non potrebbe essere previsto per la madre: nessun giudice né nessun medico potrebbe mai costringere una donna a un impianto forzato di un embrione in utero.

Un’altra osservazione riguarda la Gestazione per altri (Gpa), che proprio in questi giorni potrebbe diventare reato universale in virtù di una votazione della Camera al progetto di legge di Fratelli d’Italia. Quanto la Consulta parla di cicli di stimolazione ovarica potenzialmente dannosi, descrive ciò che comunemente accade alle donne coinvolte nella Gpa: le “donatrici” di ovuli e le madri portatrici. Si dovrà pur ammettere che la logica del mercato non può prevalere su quella della salute delle donne economicamente più vulnerabili.
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