martedì 24 marzo 2020
Pubblichiamo parte di una riflessione scritta in occasione del IV Congresso ecclesiale nazionale (Verona, 2006), incluso in "La dimensione contemplativa nella difesa della vita umana"
Carlo Casini a una manifestazione a Roma nel 2014

Carlo Casini a una manifestazione a Roma nel 2014 - Archivio Ansa

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Il testo che segue è parte di una riflessione scritta da Carlo Casini, scomparso lunedì 23 marzo a Roma, in occasione del IV Congresso ecclesiale nazionale (Verona, 16 - 20 ottobre 2006) ed è appena stato incluso nel nuovo volume “La dimensione contemplativa nella difesa della vita umana” (a cura di M. Casini Bandini, ed. Movimento per la Vita italiano).

La prima parte di un notissimo pensiero di Pascal descrive esattamente la fragilità umana: «L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura; ma è un giunco pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo». La fragilità è certamente un inevitabile incontro per l’uomo.

La si vede nei malati, negli affamati, nei senza casa, nei disoccupati, nelle vittime della violenza, nei barboni, in quelli che chiamiamo “residui manicomiali”, nei profughi, negli extracomunitari che fuggono dal loro paese su zattere pericolanti, nei bambini abbandonati, nelle persone sole, nei poveri in genere.La incontriamo nelle nostre case quando un nostro familiare è aggredito da un morbo incurabile o è costretto a letto dalla vecchiaia. Ci imbattiamo in lei sulle strade quando compaiono una macchina sfasciata e un corpo a terra.

Ce la mostrano come spettacolo sulle televisioni e sui giornali, nella cronaca di maremoti, terremoti, attentati terroristici, guerre. Ci commuove negli occhi spauriti di bambini del terzo mondo, molestati da insetti e dalla pancia gonfia.C’è la fragilità del corpo e quella dell’anima: la debolezza di fronte alla suggestione dell’ambiente, dei mezzi di comunicazione di massa, del denaro.La sperimentiamo dentro di noi quando cediamo ai demoni dell’egoismo, della menzogna, di una libertà corrotta e di una ricerca di piacere nemica della felicità. Ma la incontriamo in noi anche quando siamo vittime dei nostri incolpevoli limiti o dell’altrui disprezzo.

Sappiamo bene quale è il sigillo finale della nostra comune fragilità: è la morte.

Ma vogliamo sapere chi tra i viventi è il più fragile. Facciamo un esperimento mentale. Poniamo di fronte a noi l’uomo, che, pur come tutti destinato a morire, è oggi il meno fragile: è forte, ricco, intelligente, bello, potente, stimato, giovane.

Togliamogli, ad una ad una, tutte queste qualità: la forza, la ricchezza, l’intelligenza, la bellezza, il potere, la stima, la giovinezza. Diviene simile ad uno dei tanti esseri viventi che abbiamo ricordato. Ma non è ancora il più fragile.Ognuno di noi di fronte alla morte diviene fragilissimo, ma forse ha ancora qualcosa: una storia che ha lasciato una traccia, una memoria che almeno nei figli e parenti resta, una visibilità che stringe il cuore di chi gli sta accanto. La nostra fragilità – estrema quando stiamo per scomparire dall’esistenza terrena – è ancora più estrema quando dal nulla cominciamo ad esistere. All’inizio l’uomo è quasi nulla: appena visibile al microscopio, non ha neppure la forma umana. Non possiede nulla. Non può nulla. Può solo confidare nell’accoglienza di una donna. (…)

La condizione prima è che il figlio sia riconosciuto come figlio, come uno di noi. La percezione dell’aborto vuole la parola. Una parola amica, una parola “accanto” e non “contro”, ma vuole la parola. La vuole la madre per ritrovare coraggio; la vuole soprattutto il figlio per essere riconosciuto e vivere.

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