martedì 10 settembre 2013
​L'Italia arranca, accoglienza in calo e risorse a zero. E solo un caso su tre si conclude con esito positivo (Francesco Dal Mas)
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L'Italia è divisa non soltanto nei parametri economici, ma anche in quelli sociali. Perfino per quanto riguarda l’affido. Una problematica, questa, al centro di una quattro giorni internazionale a Padova, curata dalla Fondazione Zancan e dai cui lavori emerge che l’affido familiare non è sempre la soluzione migliore, soprattutto quando non è pensata. Che l’Italia ha ancora molta strada da fare. E che la povertà, acuita dalla crisi, sta mettendo l’accoglienza sotto scacco. Ma andiamo con ordine. Secondo le ultime stime disponibili in Italia a fine 2010 erano 29.309 i ragazzi accolti fuori della famiglia (il 2,9 per mille della popolazione minorile complessiva). Attenzione, però: non mancano le differenze, che qui al convegno chiamano diseguaglianze, a volte anche profonde. La prima è di carattere geografico: il tasso di allontanamenti varia notevolmente a seconda della regione considerata. La forbice è ampia e va dall’1,6 ogni mille bambini dell’Abruzzo a un massimo di 4,7 per mille della Liguria. I dati medi sono del 3,1 per mille a Nord-Ovest, del 2,9 per mille a Nordest, del 3 per mille al Centro, del 1,6 per mille al Sud e del 3,5 per mille nelle Isole (fonte: Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, 2013). «Queste differenze non sono spiegabili con bisogni di maggiore o minore intensità – precisa il direttore della Fondazione Zancan, Tiziano Vecchiato –. Ci parlano della maggiore o minore presenza di risorse e capacità professionali per affrontare i problemi presenti nei territori». Vale a dire: dove c’è più povertà (o meglio, meno capacità di spesa) c’è anche meno speranza di accoglienza familiare. La seconda diseguaglianza è anagrafica ed esistenziale: con il crescere dell’età prevale l’accoglienza nelle comunità residenziali (82% tra i 14 e i 17 anni). Per i bambini tra 0 e 2 anni l’affido è messo in atto nel 73% dei casi, scendendo a quota 35% tra gli 11 e i 13 anni e arrivando al 18%. appunto, tra i 14 e i 17 anni. Il motivo? «Da un lato è evidente – spiega Vecchiato – che se l’allontanamento necessario è rimandato (anche per incapacità e paura di decidere) il problema cresce, si cronicizza, rendendo necessari gli interventi dei magistrati. Molti affidi familiari tardivi falliscono. Le famiglie disponibili all’affido stanno diminuendo. Chiedono di non essere solo selezionate e formate, ma soprattutto accompagnate e sostenute». Differenze e diseguaglianze in Italia. Ma anche tra i Paesi Europei. Qui a Padova ci si sta confrontando, ad esempio, sugli esiti delle varie forme di affido e in particolare sulle condizioni di efficacia. Un primo spunto di riflessione è già sul tavolo: la necessità di smettere di parlare di “affido” in modo generico e superare l’approccio pressappochistico per passare a uno tarato sul bisogno: «L’affido di per sé non esiste – precisa Vecchiato –, ma esistono diverse forme di accoglienza in base al problema da affrontare. Ora troppo spesso si confonde la risposta con la soluzione: l’affido non è buono in assoluto, dipende dalle forme in cui viene attuato e dalle risposte che è in grado di dare». Guardare all’affido in Europa? «È come fare un viaggio nel tempo – commenta Vecchiato –. Paesi come la Lituania, il Portogallo e la Croazia rappresentano in qualche modo una prima fase, l’affido come lotta alla istituzionalizzazione, caratterizzato da grandi speranze. Il nostro presente, al pari di Germania e Francia, è quello di un Paese che si pone delle domande: è proprio così che vanno fatte le cose? L’affido ha mantenuto le sue promesse?». Il futuro lo stanno prefigurando i Paesi Bassi, Svezia, Inghilterra. Mostrano che l’affido non è una soluzione per raddrizzare i bilanci degli enti pubblici. «È un mezzo (non un fine) da usare con responsabilità, verificando i suoi esiti nel breve periodo e non solo dopo molti anni», conclude Vecchiato.
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