Organi per trapianti dai suicidi assistiti? L’inganno della morte “altruistica”
Una ricerca pubblicata da una rivista scientifica mostra che gli organi espiantati da morti per suicidio assistito danno la stessa sopravvivenza ai trapiantati di quelli estratti da morti per cause naturali. Sorvolando sulle implicazioni etiche: così si spinge a morire volontariamente “per aiutare a vivere”?

Chi muore per suicidio assistito può donare i suoi organi? Se si assume che sia una causa di morte come un’altra la risposta non può che essere positiva. Ma la questione della morte medicalmente assistita, trattandosi di un atto volontario e non naturale, pone un dilemma etico di tutto rilievo. Stante l’enorme bisogno di organi da trapiantare, dal cuore ai reni, dal fegato ai polmoni alle cornee, non è impensabile che la volontà di una persona che sceglie di suicidarsi con assistenza medica – dove questa pratica è già legale – sia “incoraggiata” dalla prospettiva di poter disporre dei suoi organi. Aumentare il numero di organi trapiantabili è certo un interesse socialmente rilevante, e il fatto che cittadini adeguatamente informati diano il loro consenso preventivo all’espianto nel caso di morte improvvisa o di incoscienza è indubbiamente da lodare. Me se di mezzo c’è un suicidio le cose cambiano, e un approccio ispirato alla massima cautela diventa obbligatorio.
In Paesi dove il suicidio assistito ormai è prassi la frontiera di questa cautela infatti si va rapidamente spostando, di pari passo con l’abitudine a considerare la morte con aiuto medico come una delle tante possibili cause di decesso. La normalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia è un fatto reale e tangibile, con leggi nate per casi estremi diventate porta d’accesso a un percorso di fatto equiparato a quelli di cura, differendo solo per la scelta del paziente: decidere di vivere o morire dipende solo da lui, e lo Stato resta alla finestra, pronto a curare o aiutare la fine anticipata. È il caso del Canada, dove le cifre ufficiali parlano di 15.343 morti volontarie nel 2023 con un aumento del 15,8% in un anno, pari al 4,7% dei casi di morte totali nel Paese (in Italia sarebbero 31mila casi). Un dato che nel Quebec è però già al 7,2%, un record mondiale. E il trend è di continua, rapida crescita, specie se dovesse passare l’estensione dell’accesso alla morte volontaria a tutte le richieste dei cittadini, da qualunque motivo siano dettate.
Letti altrimenti, questi dati parlano anche di una quantità enorme di organi che potrebbero essere messi a disposizione di una domanda che ovunque nel mondo è ben lontana dall’essere soddisfatta, con graduatorie e liste di attesa angoscianti. A mettere di fronte alla estrema delicatezza della questione è ora uno studio guidato da James Shapiro, dell’Università canadese dell’Alberta, pubblicato sul Journal of Hepatology, che dimostra come la donazione di organi prelevati da persone morte a seguito di assistenza medica al suicidio (in Canada nota con l’acronimo di Maid: Medical assistance in dying) abbia esiti di sopravvivenza dei pazienti simili alla donazione dopo morte naturale. La ricerca ha confrontato i trapianti di fegato da donatori dopo assistenza al suicidio con i trapianti da donatori deceduti per cause naturali, cioè senza ricorrere a sostanze letali che provocano una fine improvvisa. E i risultati indicano una sopravvivenza analoga tra i due gruppi. Immaginabile la conclusione indotta dallo studio: la Maid potrebbe estendere di molto la quantità di organi disponibili riducendo in modo rapido le liste d’attesa. «La donazione di fegato dopo Maid – ha detto il dottor Shapiro – può ampliare significativamente il bacino disponibile e salvare più vite, mantenendo al contempo standard di sicurezza ed etica elevati». Certo, la ricerca canadese suggerisce linee guida rigide, trasparenza nelle procedure di consenso e clausole di salvaguardia per evitare pressioni o conflitti di interesse. Ma la decisione di morire ha risvolti psicologici insondabili da qualunque codice etico, e non bastano certo le commissioni di garanzia a scongiurare forzature, come l’allargamento progressivo dei criteri per la morte volontaria dimostra, dall’Olanda al Belgio.
La campagna su scala globale per legalizzare suicidio assistito ed eutanasia potrebbe ora trovare nell’argomento dei trapianti un alleato imprevedibile, inserendo una motivazione persino nobile nel percorso decisionale di una persona per chiedere la morte, così da far cessare le sue sofferenze e al contempo rendere un servizio salva-vita ad altri. Ma se la coscienza dell’opinione pubblica cogliesse il cuore etico della questione potrebbe verificarsi anche l’effetto opposto: perché è chiaro che la necessità in continuo aumento di organi finirebbe per esercitare su pazienti incerti se chiedere la morte assistita o meno una pressione del tutto impropria ed eticamente scorretta, dipingendo l’eventuale decisione di non morire subito persino come un atto di “egoismo”.
In tempi nei quali il morire sta assumendo contorni sempre più procedurali, burocratici ed efficientisti, se ne perde insensibilmente il profilo umano dentro un protocollo che, esteso su larga scala (e i numeri del Canada già questo scenario configurano), finisce col diventare addirittura perverso: se una persona non ha prospettive di guarire né di migliorare, allora perché insiste a vivere, gravando su famiglia, sistema sanitario e spesa pubblica, anziché interrompere volontariamente la sua vita, risparmiando così sacrifici e denaro a tutti e donando i suoi organi a chi ha la possibilità di una vita ancora lunga? La ricerca canadese ci sta parlando proprio di questo: siamo pronti a rispondere?
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