Sul tempo: grembo di divina eternità
Vanno. Vengono. Si rincorrono. A volte si assomigliano. A volte no. Gli anni. I mesi. I giorni. Le ore. Gli attimi. Ancora una volta eccoci qua: si chiude un anno, se ne apre uno nuovo. Ci interroghiamo sul tempo. Come sempre, da sempre.

Ogni civiltà ed ogni popolo ha sviluppato una propria concezione del tempo: lineare o circolare, misurabile o simbolico, fisico o metafisico, fino alle più recenti intuizioni quantiche. Nella tradizione occidentale non si contano i filosofi, i fisici, i matematici che si sono confrontati con questo tema affascinante e arduo. Sarebbe ingenuo, velleitario e certamente inappropriato avventurarsi in una digressione esaustiva. Nella visione dei filosofi stoici ed epicurei scopriamo – in forme e sostanze diverse s’intende – l’urgenza del «qui e ora». Lo stile di vita contemporaneo ed il modello di sviluppo prevalente sembrano pervasi irrimediabilmente da questa idea. Si vive per consumare e per consumarsi. Come se non esistesse il domani. L’estetica prevale sull’etica. L’edonismo sul dovere. Ma, indagando più a fondo, anche nella visione epicurea c’è dell’altro. Nel «carpe diem» di Orazio, troviamo l’invito a cogliere ogni attimo come se fosse il “tutto” da vivere. Nel De brevitate vitae di Seneca, questa prospettiva è ulteriormente sviluppata e consolidata. «Chi ti garantisce il domani?» chiedeva sempre Seneca a Lucilio nelle Epistulae morales ad Lucilium. E continuava: «Omnia aliena sunt, tempus nostrum est», tutto è estraneo, solo il tempo è nostro, solo questo attimo ci appartiene. Per Seneca, «la vera saggezza è concentrarsi sul presente, per non sprecare alcun istante e sforzarsi, in ogni momento, di realizzare la perfezione della vita morale, al riparo del flusso delle cose esterne». In questo orizzonte sembrano perdersi sia la speranza che la responsabilità verso il futuro. Ma si tratta solo di apparenza. Poiché la perfezione morale del «qui e ora» custodisce la perfezione morale per l’eternità. Il saggio vive l’oggi come un’esperienza atemporale. Al di fuori della misura convenzionale del tempo. «Inter brevius et longius tempus nihil interesse iudicat», non c’è differenza fra un’esistenza più lunga e una più breve (De vita beata, 21).
Il tempo che ci è dato – ogni tempo – deve essere vissuto katà métron (κατὰ μέτρον), secondo la giusta misura. L’avvicendarsi delle ore, dei mesi e degli anni serve solo a rammentarci la caducità dell’esistenza. Ci ricorda che tutto ha un inizio e una fine. Nel Mistero della Morte troviamo il senso più profondo del Mistero della Vita. Siamo chiamati a santificare ogni frammento di tempo. È nell’”ora” che si costruisce il “poi”. È nell’oggi che si costruisce il domani. Il futuro non è altro che un frutto che matura sull’albero del presente. Il quale, a sua volta, è radicato nel passato. Che un tempo fu presente. Dunque, la questione non è più il tempo in sé. Ma noi nel tempo. Ovvero, ricercare sempre il bene. Non un bene generico, bensì il bene più grande, moralmente ed eticamente fondato. Che trova il suo principio e fine in Dio. Da Dio. Con Dio. Ricercando costantemente questo bene più grande, il concetto di tempo smette di essere una variabile condizionante e diventa semplicemente uno spazio neutro, un “grembo” in cui il bene può essere fecondato, per l’oggi e per il domani, senza alcuna contrapposizione tra di essi.
Sarà il Cristianesimo a portare a compimento questo percorso di sostanziale convergenza, elevazione e trasfigurazione del concetto di tempo e delle sue dimensioni. A questo proposito, vale la pena citare Agostino d’Ippona, il cui pensiero appare, per molti aspetti, sorprendentemente moderno e vicino alle più recenti acquisizioni della fisica e della matematica: «Senza nulla che passi non esisterebbe un tempo passato, senza nulla che divenga non esisterebbe un tempo futuro, senza nulla che esiste non esisterebbe un presente. Due, dunque di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, e il secondo non è ancora? E quanto al presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma Eternità. Se dunque il presente, per esistere deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di lui che esiste? [...] Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. [...] Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non li vedo altrove: il presente del passato è la memoria (memoria), il presente del presente la visione (contuitus), il presente del futuro l’attesa (exspectatio)». (Agostino, Confessiones XI, 14-20, passim)
Il tempo, in questa prospettiva, non è altro che una manifestazione della tensione interiore dell’animo – la distentio animi – attraverso cui la nostra coscienza, in un fragile equilibrio, cerca di catturare il fluire continuo degli eventi. Ogni istante del presente scivola via, difficile da afferrare, ma sempre percepibile. Il tempo, per quanto immateriale e inconsistente, rappresenta l’emblema della finitezza che pervade l'universo e governa la sorte di tutti gli esseri viventi. Riflettere sul tempo diventa, così, un atto indispensabile per l’essere umano, poiché gli consente di riconoscere i propri limiti e di comprendere la sua condizione di creatura, dotata di libertà e ragione. Sant’Agostino va oltre. Il tempo, per quanto fugace, diventa mezzo per raggiungere l’Eternità. Strumento attraverso il quale Dio ci rende partecipi della beatitudine eterna e della Sua Divinità. Partorendoci all’Eternità senza inizio e senza fine. Prima non eravamo. Attraverso il tempo, siamo. La vita non è “uscire dal nulla per rientrare nel nulla”. L’esistenza umana è percorso. Verso la salvezza cristiana. È oscillazione dell’Eterno Sempre Essente. Veniamo dal Tutto per tornare e dimorare definitivamente nel Tutto. Il tempo, dunque, si manifesta come dimensione (e proiezione) dell’anima. Come potenza di bene o di male che diventa atto, trasformandosi in realtà concreta. Riecheggia Platone che considerava il tempo come «immagine in movimento dell’eternità» (εἰκὼ κινητὸν αἰῶνος). Nel tempo “l’eterno appare”. Si rivela. Si dona. Si fa abitare. Viene abitato. In questa prospettiva, la distinzione tra passato, presente e futuro perde consistenza. Anche parlare di breve o lungo termine appare, in fondo, semplicistico – se non privo di autentico significato.
«Parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque, non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere». (Agostino, Confessiones XI, 15-18)
Ogni tempo, dunque – breve o lungo che sia, e ammesso che tale distinzione esista – è il tempo della responsabilità. Ogni tempo è connesso a ogni altro tempo, come suggerisce anche la fisica quantistica attraverso il fenomeno dell’entanglement, o come ha evidenziato John Godolphin Bennet, filosofo inglese che, nel secolo scorso, introdusse il concetto di hyparxis – il tempo della “possibilità” – all’interno di una visione a sei dimensioni dell’Universo, nella quale erano contemplate tre diverse dimensioni temporali del tempo e dell’ipertempo. In Bennett, tuttavia, tale concetto assumeva prevalentemente implicazioni di ordine fisico, più che metafisico o sociale. Ogni tempo è il «tempo della opportunità per il pieno compimento e il completamento della Storia in Dio» – o nell’Assoluto, per chi con crede. In Dio, che è Verità e Logos primigenio, perennemente generativo. «Nunc stans», avrebbero mirabilmente sintetizzato gli antichi (e poi lungo tutta la storia del pensiero filosofico e teologico secondo le diverse interpretazioni): là dove passato, presente e futuro diventano una cosa sola e si rivelano pienamente; dove immanenza e trascendenza si toccano e si incrociano; eterno ora nell’unico eterno; permanenza nell’Uno. O meglio ancora, «nunc permanens» avrebbe poi precisato Boezio sotto l’influenza di Agostino. Chiamati a essere “nella Verità”, sempre, poiché ogni azione produce effetti universali, nello spazio e nel tempo: nel qui e ora come nell’altrove e poi; nel breve e nel lungo periodo; nell’immanenza e nella trascendenza; nel visibile e nell’invisibile; nel sensibile e nello spirituale. Ogni essere umano è chiamato a cercare sempre il bene più grande. «Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione» (Agostino, De vera religio, 39-72).
È il principio dell’universalità del bene e del male. Che si estende sia nello spazio che nel tempo. E che deve ispirare ogni buon Armonauta. A tal proposito, vale la pena rileggere integralmente le parole del teologo Costantino Di Bruno nel libro La scala di Giacobbe. L’innovazione armonica interroga la teologia fondamentale (Rubbettino, 2023): «Cosa è il tempo? Immaginiamo una retta che dal giorno della creazione giunga al giorno della Parusia, cioè al giorno in cui verrà il Signore sulle nubi del Cielo per il giudizio universale e per la creazione dei nuovi cieli e della nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia, la pace, la luce, la verità, la vita. In questa linea che va dalla creazione alla Parusia il tempo è un minuscolo segmento stabilito per noi dal nostro Dio, Creatore e Signore, perché diamo luce di verità e di grazia, aggiungendo ciò che ancora manca, non solo ad ogni altro uomo, ma anche all’intera creazione. È evidente che per poter fare questo dobbiamo abitare noi nella verità, nella luce, nella grazia che sono in Cristo Gesù. Se noi abiteremo in Cristo crescendo in Lui di luce in luce e di verità in verità, daremo agli uomini e a tutto il creato più luce e più verità, più giustizia e più vita. Se ci separiamo da Cristo saremo tenebra, falsità e morte e di conseguenza daremo agli uomini e al creato tenebra, falsità morte. Come si può già intravedere, Cristo Gesù è il fulcro, il cardine, il centro, il fondamento, il principio di verità, luce, vita eterna, grazia se vogliamo vivere tutto il tempo che ci è stato concesso per portare a compimento il progetto che il Signore ha affidato a ciascuno di noi. Se Cristo viene tenuto lontano da noi o ci separiamo da Lui, il tempo sarà utilizzato per realizzare nostri progetti, ma non certo il progetto che Dio ci ha affidato. Siamo senza il principio dal quale si deve partire e nel quale si deve abitare se vogliamo vivere secondo verità il segmento sul quale siamo stati collocati dal nostro Dio e Creatore».
Il tempo, allora, è il nome terreno dell’Eternità che ci sfiora; è la soglia in cui Dio parla ed opera attraverso il ritmo del divenire. Ogni istante può diventare sacramento del sempre, se lo si vive nella luce del Logos.
L’Armonauta lo sa: il tempo non si misura, si santifica. Non si domina, si custodisce. Non si teme, si trasfigura. E, nel breve respiro di un anno che finisce, scorge l’infinito che ricomincia. “Passa veloce la scena di questo mondo”. Affidiamo il 2026 alla Madre di Dio, festeggiata con questo titolo ogni inizio d’anno. Ci partorisca lei alla vera vita.
L’Armonauta lo sa: il tempo non si misura, si santifica. Non si domina, si custodisce. Non si teme, si trasfigura. E, nel breve respiro di un anno che finisce, scorge l’infinito che ricomincia. “Passa veloce la scena di questo mondo”. Affidiamo il 2026 alla Madre di Dio, festeggiata con questo titolo ogni inizio d’anno. Ci partorisca lei alla vera vita.
Auguri!
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