Michael vede l’anima nei pazienti “vegetativi”

June 11, 2025
Il paziente, un giovane di 25 anni, presentava cicli regolari di veglia e sonno ma, dopo l’incidente, non aveva mai riacquistato la capacità di compiere azioni volontarie, compresa quella di aprire gli occhi. A volte sorrideva, faceva smorfie, sembrava piangere. I genitori li interpretavano come segnali di consapevolezza, ma i medici, compreso Michael Egnor, li invitavano a non farsi speranze vane: loro figlio, sussisteva in uno stato “vegetativo” e i suoi comportamenti erano semplici riflessi. Era il 1999, quando quella definizione era ancora accettata dalla comunità scientifica. «Era come paragonare un essere umano a una pianta – spiega Egnor, che insegna Neurochirurgia alla State University di New York – ma era già evidente che alcuni pazienti vivevano esperienze coscienti. Nel 2002 è stato introdotto il termine “stato di minima coscienza”, ma neanche quello ci aiuta a rispondere alla domanda più importante: che cosa si prova dopo una grave lesione cerebrale?». Egnor ha dedicato i due decenni successivi a cercare di capirlo. Inizialmente, nel tentativo di spiegare perché stati mentali relativamente sofisticati venissero preservati nei pazienti con menomazioni gravi, ha seguito la visione materialista della connessione mente-cervello, che sostiene che qualsiasi attività mentale che permane dopo un trauma deve essere causata da zone del cervello rimaste intatte. «Ma non era quello che osservavo – continua – ed è così che sono approdato a una visione dualista della connessione mente-cervello: ci sono alcuni tipi di attività mentale, come la volontà, che non sono generati interamente dal cervello». Era una visione rivoluzionaria e il neurochirurgo ha continuato a raccogliere dati per dimostrarla. Oggi, dopo oltre 7.000 interventi chirurgici e l’osservazione di innumerevoli pazienti in coma, è giunto alla conclusione che il cervello umano, pur essendo incredibile, misterioso e potente, non è ciò che ci rende chi siamo. O almeno non solo. «C’è qualcosa di più – dice oggi –. Dietro ogni cervello danneggiato c’è una persona pensante e sensibile, dotata di una dimensione che trascende i suoi neuroni. L’ho visto nei casi di gemelli siamesi che condividono parti del cervello, e di pazienti in coma profondo ancora in grado di comunicare con le persone che li circondano». Pochi giorni fa è uscito il libro dove il docente ha raccolto le sue scoperte: The Immortal Mind: A neurosurgeon’s case for the existences of the soul, che contiene due parole che pochi scienziati usano per spiegare i fenomeni della mente: anima e immortalità. «Molti medici credono che l'anima non esista – ammette Egnor –. Sono convinti che siamo composti solo da cellule e tessuti e che siamo completamente controllati dall’organo nella nostra testa». È riuscito dunque a localizzare l’anima? «No, ma l’ho osservata – spiega –. Ho osservato come molti fenomeni misurati da una risonanza magnetica funzionale dimostrino che un paziente ha un livello di coscienza e vive delle esperienze che il danno subìto dal suo cervello dovrebbe rendere impossibili». Egnor oggi è convinto che anche quando un paziente in coma non mostra alcun segno esteriore di percezione, un’esperienza cosciente “nascosta” può permanere. Fa parte di questa categoria di persone Ian Berg che, quasi 40 anni dopo il gravissimo incidente automobilistico che lo lasciò del tutto incapace di comunicare con il mondo esterno, ha rivelato una reattività occulta, quella che sua madre Eve sospetta da sempre. «C’è una nuova ondata di interesse per lo sviluppo di metodi più economici per rilevare la coscienza, metodi che possono essere utilizzati al letto del paziente in terapia intensiva», aggiunge Egnor, che ha studiato il caso di Ian a casa dei genitori nello Stato di New York. Queste tecniche pionieristiche sembrano rilevare segni di reattività in circa il 25% dei pazienti che in passato sarebbero stati chiamati “vegetativi”. «Parliamo di decine di migliaia di persone solo negli Stati Uniti che potrebbero essere silenziosamente coscienti – conclude il medico –. È una visione che ci spinge a riconsiderare i nostri obblighi etici nei confronti delle persone con gravi lesioni cerebrali». © riproduzione riservata

© RIPRODUZIONE RISERVATA