In Sud Sudan il futuro inizia sempre da una scuola

September 22, 2025
Quasi trent’anni fa, nel gennaio del 1996, partivo per la prima volta per l’Africa. Destinazione: Camerun. Lì, per quasi due anni, ho lavorato per il giornale della Conferenza episcopale L’Effort Camerounais. Per me, neolaureata in Filosofia, era un mondo del tutto nuovo, sorprendente e spaesante. E lo è ancora oggi. Dopo tanti anni e moltissimi viaggi in almeno 35 Paesi, alcuni frequentati più e più volte, l’Africa continua a sorprendermi e a spiazzarmi. Solo che ora è un po’ più “casa”. E questo grazie anche ai tanti missionari e missionarie che ho incontrato sul mio cammino, che mi hanno innanzitutto accolta e accompagnata, che mi hanno aperto gli occhi su tante realtà di cui mi mancavano categorie e coordinate. E che, soprattutto, mi hanno aiutata a calarmi tra la gente, facendomi amare anche posti e contesti che, apparentemente, non hanno nulla di attraente. Uno di questi è il Sud Sudan. Che è appunto uno di quei Paesi in cui sento regolarmente il desiderio di tornare. La prima volta – a dire il vero – non esisteva neppure. Era il 1999 e faceva ancora parte del Sudan: le popolazioni del Sud stavano combattendo una guerra di liberazione dal governo fondamentalista e oppressore di Khartoum. Ovunque c’era morte e distruzione. E una terribile carestia stava decimando i bambini. Dall’ospedale di Rumbek, dove scarseggiava il cibo, gli altissimi dinka ridotti a scheletri se ne andavano via, camminando lenti e ondulanti nella savana, per andare a morire nelle loro capanne. «I go to Comboni», mi disse un bambino, sfoderando un sorriso magnifico che squarciava la tristezza di quella situazione. «Ma che significa?», mi chiesi. «Sono le nostre scuole», mi spiegò l’allora vescovo di Rumbek, padre Cesare Mazzolari che, insieme ad altri, aveva deciso rimanere in quella che per i comboniani è una terra d’elezione. E già restare non era poco in quegli anni terribili di guerra e di fame. Ma padre Cesare aveva anche deciso di investire il più possibile e tra mille difficoltà nell’istruzione: «Altrimenti questo Paese non avrà mai un futuro». Sono tornata altre volte in Sud Sudan. La più esaltante è stata alla vigilia dell’indipendenza, nel luglio del 2011, quando si respirava davvero un’aria nuova e una speranza di pace e di sviluppo per tutti. L’ultima, lo scorso maggio, per ritrovare che gli stessi leader di sempre non sanno fare altro che la guerra, uccidendosi tra “fratelli” e calpestando i loro stessi popoli. Nel grande cortile della casa parrocchiale di Bentiu, al confine con il Sudan, più di 1.600 bambini scorrazzavano vocianti prima di iniziare le lezioni. Solo che la scuola ha un’unica aula in muratura, peraltro soffocante viste le temperature oltre i 40 gradi. Poche altre sono in fango e paglia. La maggior parte dei bambini, tuttavia, segue le lezioni sotto i grandi alberi, con una lavagnetta posata contro il tronco. Per i ragazzi un po’ più grandi, invece, l’unica possibilità di studiare è nel vicino campo sfollati, che accoglie quasi 140 mila persone fuggite dal conflitto civile e ammassate in condizioni davvero penose, in baracche di lamiere. Tutt’intorno, le enormi inondazioni provocate dal fiume Bahr el Gazal sono arrivate a ricoprire l’80 per cento dello Stato di Unity, di cui Bentiu è capitale. Il nuovo vescovo, padre Christian Carlassare, pure lui comboniano, è per il momento un “senzatetto”. Ospite dei preti diocesani della parrocchia, sta costruendo la sua piccola casa lì di fronte, ma ha già in mente un progetto molto più grande e ambizioso, in un vasto terreno che gli è stato donato. «Sarà una scuola – dice –. Perché il futuro di questo Paese è adesso!».

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