Tra una vita serena e una inquieta forse è meglio la via mediana
Di fronte alle tribolazioni dell'esistenza è meglio cercare la serenità o affrontare l'inquietudine? L'importante è non cedere all'indifferenza
Caro Avvenire,
ho vissuto di recente un forte disagio sul lavoro. Ho chiesto aiuto a una cara collega: mi ascolta e mi conforta, dicendo: «Importante che tu sia sereno». Eppure, notava Søren Kierkegaard, siamo in fondo inquietudine, tormento e angoscia. Sono essi ad accendere e ad animare la vita; l’inerzia spirituale invece la atrofizza e la spegne. Ogni giorno assaporiamo briciole di serenità. Ma il cuore gusterà la quiete, soltanto in Colui che ci ha creati inquieti per colmarci di Sé. Sant’Agostino, rivolgendosi a Dio, non scriveva che «il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te»? Forse Dio ci dona l’inquietudine per regalarci la serenità. Non dovremmo allora ringraziarlo anche nelle tribolazioni piuttosto che mormorare?
Vito Melia
ho vissuto di recente un forte disagio sul lavoro. Ho chiesto aiuto a una cara collega: mi ascolta e mi conforta, dicendo: «Importante che tu sia sereno». Eppure, notava Søren Kierkegaard, siamo in fondo inquietudine, tormento e angoscia. Sono essi ad accendere e ad animare la vita; l’inerzia spirituale invece la atrofizza e la spegne. Ogni giorno assaporiamo briciole di serenità. Ma il cuore gusterà la quiete, soltanto in Colui che ci ha creati inquieti per colmarci di Sé. Sant’Agostino, rivolgendosi a Dio, non scriveva che «il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te»? Forse Dio ci dona l’inquietudine per regalarci la serenità. Non dovremmo allora ringraziarlo anche nelle tribolazioni piuttosto che mormorare?
Vito Melia
Caro Melia,
il suo è un quesito esistenziale che rilanciamo alla comunità dei lettori e che difficilmente può trovare una risposta nello spazio di questa rubrica. Proviamo comunque a svolgere qualche considerazione che forse può aiutare ad avviare il cammino di riflessione personale. In molte tradizioni etiche - stoica, epicurea, buddhista - la felicità nasce dall’armonizzarsi con ciò che accade, dal ridurre il divario tra il mondo e le nostre aspettative. È ciò che il grande psicologo Jean Piaget descriveva come accomodamento dal punto di vista cognitivo: modifichiamo il nostro approccio mentale per adattarlo alla realtà esterna. Si tratta della capacità di riorganizzare gli schemi affettivi e morali di fronte a una situazione non modificabile. Ciò che in origine rappresenta la descrizione di una possibilità può poi diventare la prescrizione per una vita priva di dolore. La serenità come ideale nasce dal non desiderare altro che quello che possiamo ragionevolmente avere e dall’accettare tutte le traversie che possono affliggere la nostra vita. L’altro polo della dialettica è invece l’assimilazione morale, ovvero lo sforzo di trasformare le condizioni del mondo affinché vi si possa vivere bene, secondo i nostri valori. È la prospettiva attiva, tipica dell’etica moderna e del pensiero contemporaneo dell’autorealizzazione, ma anche dell’aspirazione alla giustizia per molti o per tutti. Qui la felicità non è pura accoglienza, ma progetto: si cerca di modellare ciò che ci circonda in modo coerente con i nostri desideri o i nostri scopi altruistici. Vi sarà quindi lotta, inquietudine e insoddisfazione, perché le cose spesso non vanno come vorremmo. Si tratta dell’assimilazione nei termini di Piaget, il processo mediante il quale interpretiamo il mondo in base agli schemi mentali già posseduti, lo forziamo, per così dire, nelle nostre categorie.
il suo è un quesito esistenziale che rilanciamo alla comunità dei lettori e che difficilmente può trovare una risposta nello spazio di questa rubrica. Proviamo comunque a svolgere qualche considerazione che forse può aiutare ad avviare il cammino di riflessione personale. In molte tradizioni etiche - stoica, epicurea, buddhista - la felicità nasce dall’armonizzarsi con ciò che accade, dal ridurre il divario tra il mondo e le nostre aspettative. È ciò che il grande psicologo Jean Piaget descriveva come accomodamento dal punto di vista cognitivo: modifichiamo il nostro approccio mentale per adattarlo alla realtà esterna. Si tratta della capacità di riorganizzare gli schemi affettivi e morali di fronte a una situazione non modificabile. Ciò che in origine rappresenta la descrizione di una possibilità può poi diventare la prescrizione per una vita priva di dolore. La serenità come ideale nasce dal non desiderare altro che quello che possiamo ragionevolmente avere e dall’accettare tutte le traversie che possono affliggere la nostra vita. L’altro polo della dialettica è invece l’assimilazione morale, ovvero lo sforzo di trasformare le condizioni del mondo affinché vi si possa vivere bene, secondo i nostri valori. È la prospettiva attiva, tipica dell’etica moderna e del pensiero contemporaneo dell’autorealizzazione, ma anche dell’aspirazione alla giustizia per molti o per tutti. Qui la felicità non è pura accoglienza, ma progetto: si cerca di modellare ciò che ci circonda in modo coerente con i nostri desideri o i nostri scopi altruistici. Vi sarà quindi lotta, inquietudine e insoddisfazione, perché le cose spesso non vanno come vorremmo. Si tratta dell’assimilazione nei termini di Piaget, il processo mediante il quale interpretiamo il mondo in base agli schemi mentali già posseduti, lo forziamo, per così dire, nelle nostre categorie.
Da un punto di vista psicologico, la condizione migliore è quella di un equilibrio tra i due atteggiamenti. Potremmo spingerci ad affermare che lo stile di vita cristiano sia vicino a una via mediana tra le due polarità. Recitiamo infatti nel Padre Nostro: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà», che può significare assumere su di sé l’imperscrutabile disegno di Dio, come Giobbe nella disgrazia, e con questa consapevolezza trovare pace. Ma il vero discepolo di Gesù, come abbiamo visto esemplificato dai sette nuovi santi proclamati domenica da Papa Leone, continua a operare instancabilmente nel mondo per sfamare, curare, insegnare, rendere l’esistenza di ogni sorella e fratello più degna e confortevole. E quindi impegnarsi a rendere migliore l’intera società. Qui mi fermo, caro Melia, perché sono consapevole di avere già fatto rizzare i capelli in testa a più di un teologo con questa spericolata sintesi. Aggiungo solo che un’altra interessante alternativa in tema di felicità è quella tra «processo» e «stato». Ci sentiamo felici quando siamo nel cammino verso una meta, quando ci sforziamo di ottenere qualcosa (anche se è ancora lontana), oppure nel momento in cui tutto è compiuto e possiamo goderci il risultato? Per tradurre, sono più contento mentre cucino una torta, mi sporco, temo di avere sbagliato le dosi, eppure sono pienamente dentro quello che volevo fare, oppure allorché l’ho sfornata e la contemplo soffice e saporita, senza più preoccupazioni? Il processo è ambivalente ma lungo, lo stato di solito appagante ma assai breve. In definitiva, penso che essere sereni è ciò che possiamo augurarci. Se però non equivale a diventare rassegnati o indifferenti. Forse è proprio come lei scrive, caro Melia: Dio ci dona l’inquietudine per regalarci la serenità.
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