La giustizia di Livatino rivive su Rai 1 e Rai Play
Un martire dei nostri giorni: Rosario Angelo Livatino, magistrato, originario di Canicattì in provincia di Agrigento, ucciso dalla Stidda, un’organizzazione criminale di stampo mafioso, a soli 37 anni, il 21 settembre 1990, beatificato il 9 maggio 2021 in quanto morto «per la fede in Cristo e nella Chiesa». Il giovane Rosario è stato un pioniere nella lotta alla mafia, grazie al suo straordinario intuito, capace di decifrare i complessi intrecci della criminalità organizzata, ma anche un uomo di Credo vissuto e non ostentato. A raccontare la sua breve e intensa vita è il docufilm In fede: Rosario Livatino, prodotto da Officina della comunicazione e Loft produzioni per Rai documentari, scritto da Matteo Billi con la regia di Omar Pesenti, andato in onda domenica in seconda serata su Rai 1 e ora disponibile su RaiPlay. Si tratta del terzo documentario di una serie che ha già raccontato in tv don Pino Puglisi, assassinato dalla mafia a Palermo nel 1993, e don Peppe Diana, ucciso dalla camorra a Casal di Principe nel 1994. In ede: Rosario Livatino prevede una parte fiction che contribuisce a rendere «vivo» il personaggio, ma la vera forza del docufilm sta nelle testimonianze, da quelle più intime del cugino Salvatore e del parroco di San Francesco a Canicattì, don Giuseppe, fino all’intervista a Piero Nava, il testimone oculare che con coraggio denunciò i killer del «giudice ragazzino» e da allora vive sotto copertura. Una delle testimonianze più interessanti la offre anche Toni Mira, collaboratore di “Avvenire”, già capo redattore e inviato speciale della redazione romana, autore tra l’altro del volume Rosario Livatino. Il giudice giusto (San Paolo). È lui a spiegare le qualità investigative del magistrato agrigentino e di come scoprì che dietro false fatturazioni, cooperative fasulle e società utilizzate per produrre carte contabili come copertura di attività illecite nei confronti del fisco, si nascondevano interessi ben oltre la malavita locale relativi alle grandi opere pubbliche e al contrabbando internazionale. Metteva comunque insieme giustizia e amore, riconoscendo la dignità di ogni persona, anche se colpevole. Cosa che avvenne, racconta don Giuseppe, persino nel momento della morte, di fronte al suo assassino. Del resto il giovane magistrato aveva messo la sua vita nella mani di Dio. Lo testimoniano l’acronimo «S.T.D.» (Sub tutela Dei) ritrovato sulle sue agende e la frase scritta in rosso nel giorno dell’ingresso in magistratura: «Che Dio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige». E fu proprio incontrando i genitori ad Agrigento che Giovanni Paolo II rimase folgorato dalla figura di Rosario Livatino, «martire della giustizia e della fede», che solo la Chiesa, però, ha tenuto in debita considerazione dopo la morte. © riproduzione riservata
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