“Il Gattopardo” su Netflix è soprattutto saga familiare
La tentazione di un paragone con il film di Luchino Visconti del 1963 va rifuggita in partenza, altrimenti, come si direbbe nel calcio, non c’è partita. Il Gattopardo riletto in versione serie televisiva da Netflix va preso per quello che è, anche al di là del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), che morì ancor prima di vederlo pubblicato, anzi: all’indomani del rifiuto da parte di Mondadori, che rispedì il manoscritto al mittente. Lo avrebbe poi pubblicato Feltrinelli l’anno dopo. Al centro della vicenda, ambientata in Sicilia tra il 1860 e l’inizio del Novecento, ci sono i numerosi membri della nobile famiglia Salina e in particolare il principe Don Fabrizio, detto “Gattopardo”, personaggio di grande autorità oltre che di prestanza fisica. Tutto intorno la rivolta contro i Borboni, lo sbarco di Garibaldi, l’Unità d’Italia e il declino della nobiltà che mette in gioco il destino dei Salina e dell’intera aristocrazia siciliana. Una storia che vale per il romanzo, per il film e per la serie tv, ma che ognuno dei tre autori (Tomasi di Lampedusa, Visconti e Richard Warlow con Benji Walters e i registi Tom Shankland, Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti) affronta a modo suo e con il linguaggio che ha a disposizione. Per cui, fatta salva la primogenitura di Tomasi di Lampedusa che si avvale della scrittura realizzando un capolavoro della letteratura contemporanea, Visconti e il gruppo autoriale di Netflix reinterpretano il romanzo affidandosi allo stesso linguaggio audiovisivo, ma con le differenze che comporta girare per il cinema e girare per la tv. Basti pensare, a vantaggio del film, alla mitica scena del ballo o agli scontri tra garibaldini e Borboni. Per non dire del cast stellare messo insieme da Visconti: Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Lucilla Morlacchi, Romolo Valli… Senza dimenticare che tra il film e la serie tv sono passati più di sessant’anni, un’era dal punto di vista cinematografico e televisivo. Per cui Il Gattopardo di Netflix deve fare i conti anche con l’evoluzione delle tecniche, del modo di proporre intrecci e personaggi e dei gusti del pubblico. Non a caso, a differenza di romanzo e film, è Concetta (Benedetta Porcaroli) il personaggio principale assieme ovviamente al padre Don Fabrizio, interpretato da Kim Rossi Stuart, che non sarà Lancaster, ma se la cava molto bene offrendo una versione più moderna, disincantata, del Principe di Salina. Magari stenta la dimensione storico-politica a vantaggio della saga familiare. Qualcosa di meglio si poteva fare anche sul parlato, poco siciliano (tranne eccezioni) e poco uniforme. Eppure la serie di Netflix, di cui è fuori discussione lo sforzo produttivo, ha un suo fascino attuale. Forse in questo caso non vale la famosa frase all’origine del cosiddetto «gattopardismo»: «Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima». © riproduzione riservata
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