Morto per la poesia
“Sono entrato nel verbale e non ne sono più uscito”. Valentin Sokolov descriveva così la sua condizione di prigioniero politico, conclusa nel 1982 con la morte nell’ospedale psichiatrico per criminali di Novosachtinsk, nella Russia meridionale, dove era stato internato dopo la sua dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza sovietica e la richiesta di trasferimento in un Paese libero. Nel 2013 quella frase è stata incisa nel monumento a lui dedicato, accompagnata dalle parole che descrivono il suo “reato”: “Incarcerato per la poesia, morì per la poesia”. Aveva denunciato apertamente la disumanizzazione e la violenza della dittatura sovietica, pur consapevole delle conseguenze che avrebbe patito. Anche nei periodi di maggiore repressione portava sempre al collo una croce, a testimonianza di ciò che teneva in piedi la sua esistenza. Il verso iniziale di una poesia recita “sono un’isola di speranza in un mare di sconforto”, e le testimonianze dei compagni di detenzione - raccolte in un articolo pubblicato di recente sul portale lanuovaeuropa.org - confermano quanto la sua figura abbia sostenuto in molti di loro la fatica del vivere, in una condizione in cui l’umano veniva quotidianamente calpestato ma mai cancellato. Perché, come ha lasciato scritto, “c’erano molti muri, ma non mi hanno impedito di vedere il cielo”. © riproduzione riservata
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