Per il "guerriero" Acerbi la sfida con la vita non finisce mai al 90'

Nella sua autobiografia il difensore centrale dell'Inter si racconta, come uomo e poi come calciatore
December 21, 2025
Per il "guerriero" Acerbi la sfida con la vita non finisce mai al 90'
Il difensore dell'Inter Francesco Acerbi alle prese con l'attaccante del Napoli Romelu Lukaku (foto Reuters)
Il calcio è una metafora della vita, e questa come una partita bisogna saperla leggere per capirla e per poter viverla al meglio.  Nel calcio, come purtroppo nella vita, dicono che nessuno è indispensabile e tutti sostituibili. Sarà… Però se prendo il tabellino di Genoa-Inter, vedo che in effetti il primo gol dell’Inter lo ha segnato  Bisseck, il difensore colored tedesco che fino agli inizi di gennaio 2026 ha il compito anche di sostituire una colonna del pacchetto arretrato della squadra di Chivu, Francesco Acerbi, infortunatosi nella gara di Champions contro il Liverpool (costretto a saltare anche la semifinale di Supercoppa italiana persa dall'Inter contro il Napoli). Un pilastro, secondo me insostituibile per le ragioni che vedremo, e che il prossimo febbraio taglierà le 38 primavere, ma non ha nessuna voglia di appendere le scarpe al chiodo e tanto meno di abdicare. E’ la forza del guerriero di cento, mille battaglie in campo e fuori. “Io, guerriero” è anche il titolo della sua autobiografia (Rizzoli) in cui attraversa tutti i dolori della sua esistenza, la morte del padre con cui non riusciva a comunicare, la malattia (ha sconfitto due volte il tumore, ai testicoli) le delusioni e le sconfitte di uno sport in cui è entrato di prepotenza, lottando contro tutto e tutti.  A cominciare dagli inizi nelle giovanili del Brescia, quando mister Roberto Clerici lo sposta dall’attacco alla difesa. Una retrocessione che una volta, quando ancora non esisteva questa pantomima isterica della costruzione dal basso, era semplicemente sinonimo di declassamento e per gli spiriti più fragili una sorta di umiliazione davanti al gruppo. Acerbi quel passaggio a ritroso negli schemi tattici del mondo adulto lo visse in silenzio, nel suo rigoroso mutismo infantile che lo portava a fare catenaccio con i sentimenti celati dalla sua anima un po' oscura. Il pallone era l’unico modo per comunicare con gli altri, i quali vedevano più o meno quello che vedeva lui ai tempi quando si specchiava in una pozzanghera di qualche campetto di periferia andando alla ricerca di un piccolo centro di gravità permanente. «Ero alto scoordinato, allampanato. Correvo con le gambe larghe, calciavo sempre di collo pieno, anche nei passaggi. Mi prendevano in giro. Ma a me non importava, volevo solo giocare… Rimanevo a fine allenamento, da solo, sul campo. E non per dimostrare qualcosa agli altri. Ma per dimostrarlo a me stesso». Quel bambino che «giocava per sé stesso» crescendo si è messo a disposizione degli altri e di tutte le squadre in cui ha giocato. Dal Pavia con cui è entrato nel professionismo, fino all’ultimo prestigioso approdo, l’Inter. Una gavetta lunga, a volte sofferta, tra discese ardite e risalite, spingendosi oltre il centrocampo alla ricerca del gol perduto, di quando sognava di diventare un attaccante. Perché se nasci centravanti non è detto che morirai appiccicato alla linea gessata della tua area di rigore, puoi sempre osare e spingerti ben oltre. E questo pensiero, un po’ folle, la passata stagione deve averlo colto la sera in cui si è spinto fin sotto la porta del Barcellona e ha segnato il gol del 3-3, la rete che portava ai tempi supplementari e poi all’apoteosi del 4-3 con cui l’Inter accedeva alla finale di Champions. Un segno divino quel gol segnato al 93', a 37 anni suonati. Un dono dal Cielo, che Acerbi ringrazia ogni volta che scende in campo alzando le mani in segno di preghiera. L’invocazione sincera di chi ha capito che la famiglia e gli amici di  sempre e soprattutto la fede conquistata e difesa, sono qualcosa di molto di più degli oneri e gli onori che scorrono nel suo tempo e nello spazio di personaggio e di stella del calcio. Ringrazia Acerbi, lo fa per tutto ciò che il calcio e la vita gli hanno dato, ed è consapevole che «i momenti bui restano, ma non devono definire chi sei. Sono parte della storia, non la storia intera». Con questo bagaglio e una bacheca che è piena di emozioni, ancor più che di titoli conquistati in carriera, l’uomo Acerbi saprà difendersi da tutti gli attacchi anche quando non sarà più il campione osannato e il lavoratore privilegiato dei campi di pallone. Perché ha imparato la lezione più importante e cioè «essere fiero di come vivi, non solo di quello che hai vinto». La consapevolezza di sé e dei propri limiti è il traguardo dei campioni veri, e Acerbi appartiene a questa categoria, a prescindere dai gol, dagli assist che gli scienziati del football sono chiamati ancora ad aggiornare nel computo delle statistiche. La prova del suo essere fuoriclasse sta nel suo discorso finale in coda a "Io, guerriero" che dovrebbe diventare  il libro di testo delle scuole calcio, quelle in cui ancora in troppi insegnano che prima viene il risultato e tutto il resto è noia o conta assai poco. Invece Acerbi in quegli spogliatoi che vengono scambiati per dei laboratori per esperimenti sociali mediante un pallone, vuole entrarci, e anche a gamba tesa se necessario, perché lì ragazzo «ti insegnano a correre, a marcare l’uomo, a battere un calcio d’angolo. Ma non ti spiegano cosa fare quando ti senti solo, quando la testa ti dice che non sei abbastanza, quando vivi un infortunio, una sconfitta, una crisi personale». Questa è una società dove se non sei un vincente allora faranno di tutto per farti sentire l’ultimo, un fallito. Se non sei il numero uno allora puoi anche abbandonare il campo e tornare a casa, provano a rinfacciare quei mister e dirigenti che hanno scambiato un gioco per una fiera delle illusioni che bruciano nel falò delle vanità. Ma non è così. Come non è la giusta via quella di impegnarsi per arrivare a malapena alla sufficienza. La vera sfida è quella di dare il massimo, sempre, secondo le proprie possibilità, imparando a gestire i punti di forza e i propri limiti, proprio come ha fatto Francesco Acerbi che ci ricorda: «Non ho vinto tutto. Non sono stato il più forte, né il più celebrato, ma ho combattuto battaglie che non si vedono in televisione, che non finiscono sui giornali. Quelle che si giocano dentro l’anima. Quelle contro la paura, contro la malattia, contro i pensieri che ti tengono sveglio di notte. Oggi quando mi guardo allo specchio non vedo un eroe, ma un guerriero: uno che non ha mai rinunciato a combattere. Vedo un uomo che ha imparato a conoscersi, a perdonarsi, a volersi bene. Anche con i suoi limiti e le sue cadute. E questa per me è la vittoria più grande». L’anno che verrà, lo vedrà ancora in campo (all'Inter intanto lo aspettano per il rientro contro il Napoli, l'11 gennaio). Potrebbe essere anche l’ultima stagione da protagonista perché il tempo con lui è stato galantuomo, ne ha fatto un Nazionale e un uomo da Internazionale, ma è comunque tiranno, e il triplice fischio è più vicino rispetto a quello d’inizio. Comunque vada, Acerbi da "hombre vertical", avverte anche il tempo che corre e non aspetta mai nessuno: «Non ho paura di smettere di giocare. Ho paura solo di non rimanere me stesso. Non voglio essere ricordato per un gol o per una partita, ma per la persona che sono diventato… Perché la partita più importante è quella che giochi con te stesso e che non finisce al novantesimo. La partita più importante è quella che giochi tutta la vita».  

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