Tre ricerche (da non perdere) su Covid e informazione online
venerdì 14 ottobre 2022

Durante la pandemia, quanto le persone si sono nutrite di informazione spazzatura pubblicata online? In che misura sono rimaste vittime delle “bolle informative” digitali nelle quali sono cadute o si sono rifugiate? E infine: quante persone sono state cambiate davvero da questo tipo di informazioni online?
So benissimo che molti di noi non ne possono più di sentire parlare di pandemia e di Covid. Ma queste domande, secondo me, sono molto importanti per almeno due motivi. Il primo è che capire come ci siamo comportati online durante la pandemia può aiutarci anche in altri frangenti, compreso (in parte) quello che stiamo vivendo da oltre 230 giorni con la guerra in Ucraina. Il secondo, è che queste domande sono alla base di ben tre ricerche pubblicate da poco a dimostrazione della serietà del tema e della sua attualità.
Il primo di questi tre studi è stato realizzato da Sacha Altay, Rasmus Kleis Nielsen e Richard Fletcher dell’Università di Oxford, i quali sono partiti da una domanda: «In che modo la pandemia di Coronavirus del 2020 ha influenzato il consumo di notizie online delle persone?» Per provare a rispondere hanno fatto «un’analisi comparativa dei dati su una stima di 905 miliardi di visite a siti di news e di 54 miliardi di reazioni (mi piace, condivisioni, commenti) a post su Facebook pubblicati da organi di informazione». I Paesi presi in considerazione dalla ricerca sono stati Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania.

La più importante notizia che emerge dallo studio è questa: «le testate giornalistiche affidabili hanno beneficiato maggiormente dell’aumento del traffico web (…). Complessivamente, le testate giornalistiche ritenute inaffidabili (secondo il servizio NewsGuard - ndr) hanno catturato solo il 2,3% del traffico web e il 14,0% del coinvolgimento di Facebook». Mentre i siti che si spacciano come giornalistici ma che pubblicano regolarmente contenuti falsi «hanno rappresentato l’1,4% del traffico web e il 6,8% del coinvolgimento su Facebook». Per i ricercatori di Oxford, «durante la pandemia di Coronavirus le persone si sono in gran parte rivolte a testate giornalistiche affidabili».
Aspettate, però, a gioire: lo studio purtroppo non ha misurato il traffico o il coinvolgimento dei siti non giornalistici, molti dei quali potrebbero essere stati una delle principali fonti di informazioni (inaffidabili) sul Covid.

In un secondo studio, un team di 19 ricercatori internazionali guidato da Alon Zoizner ha esaminato il consumo di contenuti sul Covid in 16 paesi europei più Israele. E l’ha fatto analizzando quanto le persone si sono informate su fonti che sentivano affini al loro pensiero sia su fonti che “sfidavano” le loro opinioni politiche. Lo studio ha confermato un tendenza che anche tutti noi abbiamo sperimentato direttamente o attraverso i nostri amici. Più cresceva la preoccupazione per la pandemia e più le persone hanno cercato informazioni ovunque. In particolare, proprio con la fine dei lockdown le persone più spaventate e disorientate hanno cercato informazioni anche su siti “non allineati”, sperando di trovare lì un’altra verità.
Infine, Andrew Anderson e Joshua Scacco hanno pubblicato uno studio su American Behavioral Scientist che esamina quanto certe informazioni a tema Covid abbiano spinto le persone a negarne la pericolosità. E qui i ricercatori hanno scoperto che la fonte che più ha influenzato gli americani è stato il canale televisivo Fox News . E l’ha fatto non solo sui conservatori, più affini alla linea editoriale della tv, ma anche verso chi ne era più politicamente lontano.
© Riproduzione riservata

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