
Per mesi Rosa aveva indossato abiti premaman, sempre più larghi. Pronta la cameretta, tutta azzurra, annunciata la festa agli amici, prenotata la torta. Ma sotto gli abiti larghi c’era solo un cuscino.
Infine Rosa, 51 anni, dopo accurati appostamenti, rapisce una neonata alla madre, in ospedale. Peccato solo sia femmina – ora dovrà vestirla di azzurro.
La storia di Cosenza è malattia psichiatrica: ossessione covata per anni, nell’attesa vana, ogni mese, di un concepimento. Rosa è malata, e ha fatto una cosa assurda e terribile. E tuttavia la grande eco di questa vicenda affonda, forse, su un malessere più ampio, non patologico certo, però non così raro.
Sono tante le donne che superati i quaranta, avendo lavorato e magari fatto carriera, realizzano che il figlio cui non hanno mai pensato adesso manca. E si dicono che forse non è tardi, e ogni mese, per un giorno di ritardo, sperano. Ma, niente: e il tempo passa, e si va da uno specialista in fecondazione assistita. Ormoni, tanti, e ansiose attese del giorno “giusto”. E se niente succede ancora c’è chi commissiona un figlio all’Est, da una madre in affitto, con il seme del marito.
La maternità riscoperta alle soglie della menopausa è un fenomeno generazionale: una buona parte delle ragazze cresciute dopo il ’68 trovavano ovvio buttarsi solo nel lavoro – e un figlio no, o non ora, ora non è il momento.
Ma il corpo di una donna, indipendentemente dalle sue certezze, allo scoccare di una certa ora talvolta “chiama” una maternità. La maggioranza di quante avvertono questa domanda tenta, si arrende, se ne fa una ragione. Anche se magari evitano le amiche con bambini piccoli. Fa male, adesso, quell’assenza.
La storia di Cosenza è follia, con un substrato però di “non detto” ampio, e quasi inammissibile. Non mi meraviglia poi tanto. Fra migliaia di ultraquarantenni che scoprono di desiderare un figlio, una ha “agito” fino in fondo, patologicamente, il suo desiderio. Quello che altre nemmeno osano ammettere. Quasi che fosse la confessione di un errore. Un errore? Impossibile: si insegnava alle ragazze che il lavoro era l’unica vera “realizzazione” di sé. Non può essere, che in tante ci si sia ingannate.
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