Mio padre in partenza per il Fronte. Quel Natale, e questo
Non è facile farsi gli auguri: c'è chi ci prospetta una guerra come quella toccata ai nostri genitori, ai nostri nonni. Eppure compriamo regali. Andiamo alle feste. Ci salutiamo, ma con qualcosa che almeno a me resta in gola

Non è facile dire, quest’anno, Buon Natale. Un Natale così la mia generazione non l’ha mai vissuto. Mai sotto a un orizzonte così oscuro. Il cancelliere tedesco Merz dice che l’avidità di potere di Putin somiglia a quella di Hitler. Il Segretario generale della Nato, Rutte, afferma che dobbiamo aspettarci una guerra come quella toccata ai nostri padri e nonni. Non puoi credere che il terreno su cui camminiamo ceda sotto ai piedi, dopo 80 anni di pace. E tuttavia è Natale. Compriamo regali, seppure cautamente. Andiamo alle feste delle scuole. Ci salutiamo, «Buon Natale», con qualcosa che però almeno a me resta in gola. Buon Natale, quest’anno, non lo si può dire per abitudine. Quest’anno proprio non basta.
Penso ai Natali di guerra raccontati dai miei. Natale ’43, mio padre in partenza per il Fronte russo. Sua madre gli cucì, con chissà cosa nel cuore, un basco di pelo di gatto che gli mise nello zaino. Nel Natale ’44 molti erano rimasti sotto le macerie, e dai fronti si aspettavano lettere che non arrivarono mai. Mi guardo intorno e mi pare di non vedere, almeno all’apparenza, alcuna consapevolezza di ciò che potrebbe accadere. Ipermercati opulenti, prezzi folli, spot di cose inutili, parole vuote. Questa distrazione mi inquieta.
Cerco di concentrami sui nipoti, 5 anni, 2 e 12 mesi. Certo, è per loro e per i figli che ho paura – io, la mia vita l’ho avuta. Ma c’è nei loro occhi, e soprattutto in quelli del più piccolo, qualcosa di stranamente potente. Una innocenza potente, una fiducia assoluta in te, che li prendi in braccio. Qualcosa che teneramente mi impiglia, e da cui non so liberarmi. Come la certezza che la vita è un bene. Centinaia di migliaia di bambini come questi muoiono in ogni guerra. Eppure hanno come stampata addosso questa assoluta certezza: siamo venuti al mondo per un bene più grande. È qualcosa che mi meraviglia e mi commuove. Duemilaventicinque anni fa Cristo è venuto al mondo nei panni di un figlio. Non di un adulto o di un re, ma di un neonato. Perché prima di riconoscerlo cominciassimo ad amarlo. Come è naturale amare un figlio dei nostri. E quindi questo Natale, non volendo fare auguri formali, non volendo fingere che niente stia accadendo, forse più che dirci “Buon Natale” dovremmo ricordarci reciprocamente: ci è stato dato un Bambino, quel giorno, che promette un’altra, infinita vita. Ogni figlio che nasce mi pare portare negli occhi, finché è molto piccolo e inerme, il segno di questa misericordia. Il Natale è in quei loro occhi: lasciamocene abbracciare.
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