Quel che resta di PyeongChang, in tre «scatti» speciali
mercoledì 28 febbraio 2018
La fiamma di PyeongChang si è spenta. L'isola di utopia (dove addirittura la Corea del Sud e quella del Nord sono riuscite a darsi la mano) è scomparsa, ricomparirà fra 887 giorni quando, il 24 luglio 2020, il sacro fuoco di Olimpia si riaccenderà a Tokyo. Come sempre i Giochi si chiudono e ci lasciano la loro eredità di emozioni e metafore da decifrare. Scelgo tre fotografie da conservare e su cui riflettere, tre immagini dei Giochi appena terminati che hanno molto da dire, non solo agli sportivi.
Nella prima fotografia c'è Ester Ledecka, una ragazza ventiduenne di Praga entrata dritta nella leggenda vincendo due medaglie d'oro. La prima medaglia arriva, con enorme sorpresa, dallo sci alpino, specialità SuperG. Enorme sorpresa perché quello… non è il suo sport! Ester è una specialista dello snowboard e se superficialmente potremmo immaginare una certa affinità tra le discipline, in realtà la differenza è enorme, perfino nel verbo che si usa per descriverle: nel SuperG si scia, nello snowboard si surfa. Ester è nipote di nonno Jan (due medaglie olimpiche per la Cecoslovacchia nell'Hockey su ghiaccio, nel 1964 e nel 1968), figlia di mamma Zuzana, pattinatrice di figura su ghiaccio e papà Janek, che invece è un cantautore, molto noto in patria. Il rimescolamento di questo DNA fatto di vittorie, determinazione, ghiaccio, arte, musica genera la prima donna della storia dei Giochi Olimpici invernali capaci di vincere due medaglie d'oro in due discipline diverse.
Lo scatto che scelgo la cattura pochi istanti dopo che Ester ha tagliato la linea del traguardo del SuperG. Il regista del canale olimpico televisivo americano ha già addirittura interrotto la trasmissione, certo che la gara sia virtualmente terminata. Ester supera la linea di arrivo e guarda verso il tabellone elettronico. Compare il tempo e, vicino al suo nome, l'indicazione del primo posto in classifica. Ester non ci crede, pensa a un errore. Rimane lì, praticamente immobile per quasi venti secondi, mentre tutti intorno a lei impazziscono. È come se Ester fermasse il tempo, riportandoci a un'idea di sport affascinante e antica, fatta di meno specializzazione e più romanticismo, di talento che supera le convinzioni, di fede acritica nella metodologia che improvvisamente scricchiola. In quei venti secondi di immobilità stupefatta c'è il tempo di porsi una gigantesca domanda: nelle performance di eccellenza, nelle prestazioni straordinarie, quanto conta la metodologia, la preparazione, la tecnica e quanto, invece, il desiderio, la forza di volontà, l'atteggiamento? Ester vincerà la sua seconda medaglia, qualche giorno dopo, nella sua specialità: lo slalom gigante parallelo dello snowboard.
La seconda fotografia che scelgo è quella del podio dell'Hockey su ghiaccio maschile. Ha vinto la Russia, ma non si chiama così. Sulle maglie da gioco gli atleti non hanno il nome della propria nazione, come tutti gli altri. C'è scritto «Olympic athlete from Russia» perché la Russia, per le note vicende legate allo scandalo-doping, non partecipa ai Giochi. Il Comitato Olimpico Internazionale ha però deciso di far gareggiare alcuni atleti sotto la propria "neutrale" bandiera, fra cui gli hockeisti che vincono l'oro e, una volta sul podio, guardano salire sul pennone più alto il vessillo con i cinque cerchi e ascoltano l'inno olimpico, non il proprio. Così, proprio in quel momento, decidono di stringersi in un abbraccio e si mettono a cantare a squarciagola le parole del proprio inno nazionale, superando con la forza della propria voce quella colonna sonora che non riconoscono. Uno splendido esempio, per una volta, di un'idea di identità forte ma non divisiva, sorridente e non minacciosa.
Infine, la terza fotografia: la più romantica e struggente, perché si riferisce a un'incredibile sconfitta e molto spesso gli anti-eroi ci sono più vicini e simpatici degli eroi. È la fotografia del momento in cui la sciatrice di fondo austriaca Teresa Stradlober, lanciata verso una medaglia ormai certa nella 30 km, ormai in vista del traguardo dovrebbe curvare a destra e invece va dritta, sbagliando clamorosamente strada e terminando poi la sua gara al nono posto. Il suo volto è una sequenza di emozione: sorpresa, poi rabbia, poi rassegnazione, poi orgoglio ritrovato che la spinge a ritornare indietro, riprendere il percorso e concludere la gara. Quattro anni sfumati in un secondo, sì. Fino al secondo successivo quando, come lo sport insegna, l'unica cosa che conta è trovare la forza di ripartire.
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