Quando il mare lo attraversavamo noi sognando la “Merica”
mercoledì 20 giugno 2018
Venerdì a Tarragona, in Spagna, inizierà la XVIII edizione dei Giochi del Mediterraneo. Quattromila atleti, in rappresentanza di ventisei nazioni, competeranno in trenta sport diversi. La bandiera simbolo dei Giochi ha uno sfondo azzurro con tre cerchi che si riflettono, come se si specchiassero nell'acqua. Rappresentano i tre continenti che si affacciano sul Mediterraneo: Europa, Asia e Africa che si guardano, riflessi, nel Mare Nostrum. I Giochi del Mediterraneo sono per qualcuno una manifestazione secondaria, per altri un traning pre-olimpico, utile per fare esperienza. Ci sarò anche io che, dopo ventisei anni di Pallavolo, dal febbraio scorso sono direttore tecnico delle squadre olimpiche di Tiro con l'Arco. Con me, una squadra capitanata da un bi-campione olimpico, Marco Galiazzo e altri cinque atleti di grandi ambizioni.
Tuttavia, i lettori di questa rubrica lo sanno bene, per me lo sport è un punto di partenza. Così i miei Giochi saranno la possibilità di vivere una manifestazione che mai come quest'anno ha mille significati. Basta scorrere l'elenco dei Paesi partecipanti per capirlo: la Spagna, la Francia, l'Italia e la Grecia alle prese con crisi economiche e con il dramma dell'accoglienza dei flussi migratori, la Turchia con le sue contraddizioni, la Repubblica di Macedonia del Nord che inaugurerà il suo nuovo nome, frutto di un accordo fra Skopje ed Atene dopo trenta anni di dispute, la Siria squassata dalla guerra civile, la Libia, Malta, la Tunisia, l'Algeria, il Marocco, centro dei flussi migratori di cui tanto si parla, l'Albania, che ne generò uno, enorme, qualche decennio fa, il Libano con le sue diciotto confessioni religiose, la Slovenia, il Kosovo, la Bosnia ed Erzegovina, il Montenegro che stanno costruendosi nuove identità anche grazie allo sport. Andare lì e tirare, correre, saltare, contendersi un pallone sarà uno straordinario esercizio di geopolitica, una vera presa di coscienza. Che bello se quei quattromila atleti potessero immaginarsi testimoni di un modo diverso di guardare al Mediterraneo, un posto che ha cambiato la storia del mondo.
La conosciamo bene, noi italiani, quella storia. E conosciamo quel mare che correva sotto la chiglia di piroscafi che, poco più di cento anni fa, vedevano partire duemila italiani al giorno. Sì, avete letto bene: duemila italiani ogni giorno partivano per la "Merica", stipati come bestie nel ventre di navi dove si rischiava di morire in mezzo a escrementi, vomito, senza mangiare, bevendo acqua che sapeva di ruggine per rincorrere un proprio sogno, che solo in pochissime occasioni si realizzava. Certamente si alimentava il business di compagnie di navigazione il cui unico obiettivo era quello di fare il più velocemente possibile la spola fra i nostri porti e quelli di Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro, New York. Il loro imperativo? Andare, scaricare esseri umani, caricare merci, tornare, caricare altri esseri umani e rifare ancora il viaggio. Non c'era tempo per fermarsi per il mare brutto, non si poteva correre il rischio di quarantene. Chi moriva finiva in fondo al mare, senza troppi complimenti e nel minor tempo possibile. Mamme Siciliane, Piemontesi, Venete guardavano i propri figli buttati fuori bordo, con un pezzo di ferro legato alle caviglie, finire in fondo al mare con uno strazio di fronte al quale neanche un essere bestiale potrebbe restare indifferente. Allora come oggi.
Noi andremo a rappresentare l'Italia, il Paese che nel Mediterraneo si allunga come un molo e la cui gente, risultato di migliaia di anni di mescolanze di etnie e di culture, cent'anni fa partiva, pensando, di là, di trovare il paradiso perché chi, da là, scriveva non aveva il coraggio di raccontare il dolore e le mostruosità a cui era sottoposto. C'è un archivio digitale sul web che permette di cercare, attraverso il loro cognome, tutti gli italiani arrivati in America fra il 1820 e il 1957. Cercate il vostro, scommetto che lo troverete. Ci sono 38 Berruto e 361 Salvini, per dire. D'altronde quindici milioni di italiani partirono in quegli anni, è quasi impossibile che non ci sia qualcuno della nostra famiglia. Passarono tutti attraverso un porto, attraverso domande umilianti che valutavano il loro stato di salute mentale, stereotipi, leggi che limitavano la libertà, tentativi di schedarli o rispedirli indietro.
Noi italiani, un tempo considerati razza inferiore, andremo a Tarragona per rappresentare il nostro Paese che più di tutti ha conosciuto questa barbarie che resta scritta nel nostro patrimonio genetico. Perché nessuno come noi sa. Perché nessuno come noi è stato da quella parte.
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