Per riuscire nel digitale la tecnologia non è la cosa più importante
venerdì 8 maggio 2020
Non so quanti se ne siano accorti, ma in meno di due mesi siamo passati da un eccesso all'altro. Persino coloro che consideravano il digitale la causa di tutti i mali, hanno scoperto quanto sia utile. Adesso però ci troviamo davanti al problema opposto.
Uno dei più grandi errori, infatti, che possiamo fare nel digitale – insieme, come abbiamo accennato, a quello di considerarlo la causa di tutti i problemi e dei mali che ci affliggono – è di viverlo come una sorta di strumento magico. Qualcosa in grado di darci dei «super poteri».
In tempi di pandemia, anche chi lo criticava aspramente ha scoperto che con gli strumenti digitali a nostra disposizione possiamo fare facilmente grandi cose. Ma è vero solo in gran parte. Perché gli strumenti digitali permettono davvero di fare (abbastanza facilmente) molte cose, ma la tecnologia da sola non basta mai. Avere scoperto le dirette su Facebook e su Instagram o servizi per le videochat come Zoom, è solo una parte della soluzione dei problemi.
Prendete il mondo cattolico. Grazie a questi strumenti abbiamo scoperto Messe e incontri in streaming e tante altre lodevoli e indispensabili cose. Ma chi si è fermato al mezzo, considerandolo solo una sorta di «super potere» (della serie: porta il mio messaggio alle persone senza farmi fare fatica) non ha creato e non sta creando relazioni vere (e alla fine, inevitabilmente rimarrà deluso). Perché non basta la diretta di una Messa sulla pagina Facebook di una parrocchia, se chi amministra la pagina non si impegna anche tutti i giorni per curare la sua comunità (anche nel digitale).
Se dovessi dire quali sono, a mio modesto parere, i due strumenti digitali più importanti non avrei dubbi. Sono la «cura» e la «comunità».
Non esistono infatti strategie o app o strumenti digitali che possano sostituire questi due elementi fondamentali. Senza la «cura» (che è anche e soprattutto impegno continuo e fatto con amore) e senza pensare agli altri come persone che fanno parte di una comunità (vale anche per i laici) il digitale, prima o poi, ci deluderà o ci tradirà. E da entusiasti che siamo ora, torneremo a criticarlo con foga, accusandolo di ogni nefandezza (e della nostra sconfitta).
Per non scordarlo ho appeso, sulla parete alla mia sinistra, un post preso dalla pagina Facebook di un sacerdote (del quale ovviamente ometto nome e cognome, perché ci interessa il «peccato» e non il «peccatore«). C'è scritto: «Chiudo il mio profilo Facebook perché non posso avere 2.000 amici e solo 4 like ai miei post». In queste 18 parole è concentrato l'errore più grande che possiamo fare nel digitale: considerare gli altri come una claque che deve batterci le mani a comando (a colpi di like e commenti entusiasti) e non persone. E se con 2.000 amici riceviamo solo 4 like la colpa non è mai (ripeto: mai) dei nostri amici digitali, ma solo nostra. Perché non significa (come credono alcuni) che sia in atto un complotto digitale contro di noi, ma solo che le persone con le quali abbiamo stretto amicizia sui social non sono interessate a quello che abbiamo scritto. Quindi, abbiamo davanti due strade: o, come ha fatto il sacerdote, chiudiamo stizziti i nostri profili (o le nostre dirette digitali) perché non ci hanno dato i risultati di consenso sperati o impariamo a produrre contenuti pensando soprattutto ai bisogni delle persone e ai loro
interessi (e non solo ai nostri).
Sembra facile, ma non lo è. Perché la tentazione di essere egoriferiti e di comunicare nel digitale dall'alto verso il basso (dove invece la comunicazione è sempre orizzontale) è sempre in agguato. Ma se non le contrastiamo rischiamo di trasformarci in «pavoni digitali». Che possono avere anche un po' di successo, ma alla lunga annoiano e vengono abbandonati. Tanto più ora che abbiamo tutti bisogno, più che mai, di concretezza e di verità.
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