venerdì 13 maggio 2011
Non dobbiamo aver paura di sporcarci le mani. A che servirà averle pulite, se le avremo tenute in tasca?

«È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora». Aveva ragione Enzo Biagi quando, anni fa, scriveva queste righe finali di un ritratto di don Lorenzo Milani (1923-1967) che lui aveva conosciuto proprio lassù in quella sperduta pieve toscana in cui era stato relegato, ma da dove la sua voce risuonava forte e chiara anche attraverso i suoi scritti indimenticabili. Sue sono appunto le parole che oggi abbiamo proposto, nitide nel loro rigore, simili a un colpo di frusta benefico che cala sulle nostre sonnolenze religiose e sul torpore della nostra carità. Certo, se uno sceglie il quieto vivere come norma suprema del suo agire e si mette le mani in tasca, potrà forse dire di essere ineccepibile, pulito, incontaminato.
Ma a che serve questa purità rituale, se è solo una sorta di onorificenza legata a un'esistenza incolore ed egoistica? Sappiamo bene cosa pensasse Cristo di questi perbenisti, attenti «a filtrare il moscerino e a lasciarsi sfuggire il cammello» per ostentare il loro formalismo. Quel Cristo che ebbe fin da neonato la definizione di «segno di contraddizione», come lo chiamò il vecchio Simeone, non temeva di sporcare il suo mantello con la polvere delle strade e di stringere le mani a persone infettate dalla lebbra fisica e da quella morale. Dobbiamo, allora, avere più coraggio, come lo ebbero i profeti, le cui labbra ardevano del carbone infuocato che Dio aveva usato per renderli suoi messaggeri e la cui vita non temeva neppure di scendere nelle cisterne fangose del mondo o di intervenire negli areopaghi della storia.
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