Mahjabin, quei 2.600, i taleban e una speranza
mercoledì 27 ottobre 2021
A un mese dal mio ultimo intervento qui, torno sul dramma che sta vivendo il popolo afghano. Nell'ultima settimana la situazione è tornata alla ribalta della cronaca, in relazione alla dramma della pallavolista Mahjabin Hakimi, uccisa nella prima metà di agosto, la cui notizia dell'assassinio è stata diffusa soltanto giovedì. Si è scatenato un dibattito sulla fondatezza della notizia stessa, si sono rapidamente diffuse altre versioni: un possibile suicidio o un femminicidio avvenuto nel contesto della famiglia del fidanzato di questa povera ragazza. In una frenetica rincorsa alla fonte più attendibile molti si sono schierati, con un meccanismo più simile al fan club che alla ricerca della verità.
Non voglio fare lo stesso errore, ma in virtù di contatti che ritengo estremamente attendibili e vicinissimi alla vittima, voglio ribadirlo con una ragionevole certezza, pur consapevole della confusione che regna in Afghanistan: Mahjabin è stata uccisa. È stata uccisa in virtù del suo essere stata una sportiva e in forza alla polizia locale: "troppo" per una donna afghana. Vogliamo lasciare un punto di domanda su quali siano stati mandanti, esecutori e modalità dell'assassinio? Facciamolo pure, ma non facciamo l'errore di concentrarci sul "quando" e sul "come" questa ragazza sia stata uccisa. Ragioniamo sul "perché?".
Interrogarci sul perché di questo assassinio ci spinge alla necessità di rispondere ad altri "perché?". Perché ci siamo dimenticati di 2.600 persone già su liste approvate per l'evacuazione militare di agosto e che per ragioni drammaticamente rocambolesche non sono riuscite a partire e a raggiungere il nostro Paese? Perché ci siamo dimenticati di 2.600 persone (principalmente donne e bambini) che dovrebbero già essere qui e invece, spesso con strazianti separazioni famigliari, si stanno nascondendo come animali in Afghanistan? Perché non vogliamo completare il lavoro iniziato dai nostri Carabinieri del Tuscania all'aeroporto di Kabul e interrotto dall'attentato del 26 agosto? Perché siamo immobili a guardare una catastrofe umanitaria amplificata dalla siccità e dalla devastante crisi economica che hanno colpito l'Afghanistan e che, secondo dati diffusi dall'Onu, sta portando 23 milioni di persone a soffrire di «insicurezza alimentare acuta»?
Perché non si aprono i corridoi umanitari, unico strumento oggi a disposizione per completare quel lavoro e restituire letteralmente la vita a 2.600 persone a cui avevamo promesso che sarebbe stato possibile? Perché siamo diventati un Paese "timido", che teme di accogliere un numero così esiguo di esseri umani che sono in imminente pericolo di vita?
Nel frattempo, tre giorni fa la nazionale afghana di cricket (maschile, naturalmente) ha sconfitto la Scozia in un importante competizione internazionale di questo sport così amato in Afghanistan. Amato a tal punto che, per la prima volta, ha messo d'accordo tutti: profughi, persone in questo momento nascoste nel Paese e talebani sono stati concordi nella gioia e prodighi di messaggi di complimenti alla squadra. Faccio riferimento a un precedente, quello del famoso mondiale di rugby nel Sud Africa di Nelson Mandela, nel 1995: se di nuovo partisse proprio dallo sport una scintilla di pace?
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