La partita persa di Sahar Alziamo la voce sull'Iran
mercoledì 11 settembre 2019
Nel giugno del 2014 sedevo sulla panchina della nazionale maschile di pallavolo e, considerato che l'Iran ha un'ottima tradizione pallavolistica, le nostre squadre incrociavano la propria strada nelle manifestazioni più importanti. Quell'anno capitò in World League un doppio confronto, prima da noi, poi a Teheran. Ricordo distintamente ciò che successe in Italia: una festa incredibile, decine di bus avevano raccolto ragazzi e ragazze iraniani (principalmente studenti universitari) portandoli, a centinaia e da ogni parte d'Italia, nel nostro palazzetto. Uno dei pubblici più caldi, colorati e appassionati che ricordi, capace di trasmettere orgoglio e amore genuino per il loro bellissimo Paese. Naturalmente restituimmo la visita giocando il ritorno all'Azadi Sport Complex di Teheran, una vera città dello sport costruita nel 1974 per volere dello Scià Reza Pahlavi per i Giochi Asiatici, ma immaginata per avanzare una candidatura ai Giochi Olimpici estivi. Non successe mai, perché cinque anni più tardi lo Scià sarebbe fuggito all'estero, l'Imam Khomeini sarebbe tornato dall'esilio dando il via a una stagione molto diversa per il Paese: la radicalizzazione della rivoluzione islamica, la crisi degli ostaggi con gli Usa, la guerra con l'Iraq. Quel luogo destinato alla pratica sportiva continuò ad adempiere in qualche modo alla sua funzione, restando una sorta di territorio di accoglienza e di relazioni internazionali. Un pezzo di Iran dagli standard di qualità molto alti (hotel, impianti, infrastrutture, palazzetti, uno stadio di calcio fra i più grandi del continente), ma con una triste connotazione: proibito alle donne. Le donne iraniane, insieme ad altre importanti restrizioni, non avrebbero avuto accesso agli spalti, per evitare di mescolarsi, nell'espressione della passione del tifo sportivo, al pubblico maschile. Ricordo la nostra partita all'Azadi: dodicimila spettatori uomini sugli spalti e, a bordo campo, tre donne refertiste, messe lì probabilmente per compiacere la federazione internazionale, nell'imbarazzo più assoluto (come d'abitudine alla firma del referto avevo teso la mano per salutarle, ottenendo in risposta uno sguardo terrorizzato che mi aveva fatto capire che non era loro concesso di stringere la mano a un uomo). Giocammo in questo clima incredibile e scoprimmo, solo al ritorno in Italia, che quel giorno per la prima volta una donna aveva tentato di forzare quella regola assurda, presentandosi ai cancelli di ingresso. Si chiamava Ghoncheh Ghavami ed era stata arrestata. La vicenda, denunciata anche da Amnesty International, parve risolversi dopo cinque mesi di carcere, ma non si risolse il problema dell'accesso delle donne spettatrici agli eventi sportivi. Ieri, cinque anni dopo, è arrivata una notizia terribile: Sahar Khodayari, tifosa di calcio 29enne, il 12 marzo aveva tentato di accedere, travestita da uomo, proprio allo stadio Azadi, per assistere alla partita della sua squadra del cuore: l'Esteghlal, allenata dall'italiano Andrea Stramaccioni. Scoperta e condotta in carcere per alcuni giorni, aveva appreso una settimana fa di essere stata condannata a sei mesi per oltraggio al pudore. Si è data fuoco davanti al tribunale di Teheran ed è morta la scorsa notte, con ustioni di terzo grado sul 90% del corpo. Il capitano della nazionale di calcio iraniana, Masoud Shojaei, vero e proprio eroe nazionale, ha fatto coraggiosamente sentire la sua voce per chiedere la revoca di questo abominevole divieto, in vigore da 40 anni. Serve però farsi una domanda: perché nessuno sportivo della comunità internazionale si schiera con altrettanta forza? Perché nessun campione (o campionessa), forte della propria possibilità di parlare il linguaggio universale dello sport, non fa sentire la propria voce? È tempo di schierarsi, sempre di più e sempre con maggiore urgenza. Incomincino gli sportivi, consapevoli del dono che, insieme al talento, hanno ricevuto: essere in grado di cambiare il mondo!
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