La Haka, quando lo sport diventa valore per la cultura
mercoledì 16 novembre 2016
Il rugby, si sa, è uno sport meraviglioso e strano, pieno di metafore e di anomalie. La palla, oggetto universalmente identificato con la perfezione della sfericità, per qualche misterioso arcano è ovale. Se la fai rimbalzare, non hai la minima idea di dove possa andare a finire e, soprattutto, per andare avanti, devi passarla all'indietro.
L'obiettivo del gioco è avanzare, alternando folate offensive fatte di rapidità, leggerezza, agilità fisica e intellettuale a momenti di scontro frontale, di guerra di posizione, di schieramenti che ricordano la falange oplitica greca o quella a testuggine romana. Sempre con lo stesso obiettivo: posare l'oggetto ovale oltre una linea tracciata con il gesso.
È un gioco pieno di anomalie, di differenze, di peculiarità. Come si dice nel mondo del rugby, giocano nella stessa squadra quello che suona il pianoforte e quello che il pianoforte lo deve portare a spalla, su per le scale, al trentesimo piano di un grattacielo.
Capita che questa rubrica, in questa settimana, finisca esattamente in mezzo fra la prova di manifesta superiorità degli All Blacks all'Olimpico di Roma, domenica scorsa, contro i nostri azzurri, e il primo anniversario, dopodomani, della scomparsa di un mito assoluto del mondo del rugby, che vestiva proprio la maglia tutta nera dei neozelandesi: Jonah Lomu, un atleta pazzesco definito da tre valori numerici: 196 cm di altezza, 119 kg di peso e 10 secondi e 8 decimi sui 100 metri piani. C'è tutto il rugby lì dentro.
Chi va a vedere gli All Blacks, lo hanno fatto in 63.000 all'Olimpico, va certamente per vedere del buon rugby, ma anche per vedere uno dei rituali più emozionanti che si possano incontrare su un campo sportivo. Non uno spettacolo, non una danza. Un rituale, nell'accezione antropologica del termine, che trasuda identità, cultura, tradizioni. In Nuova Zelanda si infuriarono, l'anno scorso, quando un'agenzia pubblicitaria mandò in scena una Haka artefatta, con protagonisti i calciatori del Milan. La Haka vuole incutere timore e rispetto nei confronti di coloro che la guardano, ma è altresì un gigantesco segno di rispetto.
Ha fatto scorrere fiumi di lacrime la Haka in giacca e cravatta degli ex compagni di squadra ai funerali di Jonah Lomu, ha fatto sorridere quella degli operai aeroportuali all'atterraggio dell'aereo degli All Blacks, un anno fa, diventati campioni del mondo. Guardare la Haka da pochi metri di distanza è il privilegio che hanno avuto i nostri rugbisti. Un rito di una bellezza romantica, nel senso stretto del termine, ovvero di qualcosa che richiama a qualcosa di lontano, magico, sconosciuto, irrazionale, perfino un po' lugubre e minaccioso. Una bellezza che bisogna astenersi dal cercare di capire fino in fondo, perché è patrimonio culturale di un'altra identità, ma che ci rimanda a un senso di meraviglia, di incantamento. In qualche forma ci rimanda a un desiderio che forse non riusciremo mai ad esaudire, fortissimo nella sua irrisolvibilità.
È un po' come desiderare di essere un contradaiolo per vivere appieno il Palio di Siena o essere tifoso del Toro per condividerne leggenda e modo di intendere la vita. O lo sei, o non lo sei. Se non lo sei, ti puoi avvicinare, tentare di capire. Tuttavia, alla fine, ci sarà sempre una linea dietro alla quale fermarti, con rispetto. Quella linea che indica che esiste un "noi", proprio in virtù dell'esistenza di "altri".
I Maori, la cui storia risuona nella Haka, hanno senza dubbio qualcosa da insegnarci, non solo nel come portare in meta una palla ovale. Come tutte le etnie del mondo hanno qualcosa da insegnare alle altre, se semplicemente le si ascoltasse con rispetto e senza pregiudizio, anche attraverso le espressioni del gioco, dello sport. «Quando il gioco origina bellezza, implicito è il suo valore per la cultura», è la più bella citazione da Homo ludens di Johan Huizinga, storico nato in Olanda. Un posto del mondo che, per coerenza, ha allevato persone come Vincent Van Gogh e Johan Cruijff.
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