L'inclusione scivola (anche) sul ghiaccio
mercoledì 3 aprile 2019

Quando si parla di Giochi Olimpici una parola sempre molto importante è legacy. Per i non-anglofili si può tradurre facilmente con la parola eredità. In sostanza: che cosa lasciano al territorio i Giochi quando la fiamma olimpica si spegne? Debiti, dirà qualcuno. Oppure infrastrutture, impianti, strade, metropolitane e chissà quali altre opere. Tutte eredità ben visibili e misurabili, nel bene o nel male. Poi, però, qualche osservatore più acuto, sottolineerà che ogni città che ha visto sventolare sul proprio territorio il vessillo con i cinque cerchi, ha ricevuto anche un'eredità immateriale. Un fatto di cultura, non solo di architettura.
Torino è stata città olimpica, 13 anni fa. Un evento che ha cambiato la città (e anche i cittadini) e che ha trasformato per sempre la sua immagine.

Nel weekend scorso, a Torino, un gruppo di ragazzi innamorati dell'hockey su ghiaccio, si è laureato campione d'Italia nella categoria Under 13. Sembrerebbe curioso già mettere in fila due coincidenze: Torino, storicamente, non è una città che abbia mai dominato in uno sport che di solito vede trionfare club del Nord-Est e quei ragazzi, nati nel 2006, sembrerebbero essere proprio i "figli" dei Giochi Olimpici. Tuttavia, grattando sotto la superficie di questa storia, si scoprono un altro paio di cose interessanti: la prima è che le squadre di hockey su ghiaccio Under 13 fanno giocare insieme ragazzi e ragazze. Torino per la precisione di ragazze ne schiera quattro, tra le quali Margherita che è il portiere titolare della squadra. L'altra è che un giovanotto tutto grinta dei gialloblù torinesi si chiama Raphael Savasta, ed è di origini congolesi. Sul ghiaccio non si può non notarlo e qualche tifoso simpaticone che gli ricorda questo contrasto cromatico, lo trova quasi sempre.

Sta di fatto che, al netto del successo finale che non fa mai male, questa squadra è un inno all'inclusione che vale più di mesi di discussioni politiche sul tema. Inclusione, sì, non integrazione. Perché quando si parla di integrazione spesso si sottintende un certo senso di superiorità, un etnocentrismo di fondo che fa sì che qualcuno in qualche modo permetta generosamente a qualcun altro di potersi integrare, ovvero di dissolversi negli usi, nei costumi, nelle credenze del soggetto erogatore di integrazione.

L'agghiacciante gestione della vicenda di Ramy, il ragazzo nato e cresciuto in Italia, la cui famiglia è di origine egiziana, protagonista virtuoso della vicenda del bus di studenti sequestrato e incendiato a San Donato Milanese, è significativa: il ministro dell'Interno gli ha concesso motu proprio la cittadinanza, ma il fatto è che in un Paese civile non ci dovrebbe essere un singolo uomo capace di applicare o meno, a suo piacimento, una decisione che compete a una legge. Finché saremo dipendenti dall'umore o dalla felpa del momento questa sottile battaglia (non solo semantica) fra integrazione e inclusione sarà lontana dal risolversi. Integrare significa permettere di adattarsi, includere richiede la capacità di lasciarsi contaminare così come sono stati capaci di fare, riuscendoci perfettamente, dei tredicenni su una pista da ghiaccio. Il fatto è che loro sono troppo giovani e non abbiamo tempo a sufficienza per aspettare che crescano. Dovremmo, da subito, pattinare un po' anche noi.

A Torino, la legacy olimpica propone una piccola e didascalica storia: una squadra che scivola leggera e fluida, vincendo, mettendo insieme ragazzi e ragazze di qualsiasi colore, provenienza, passaporto che condividono, tutti insieme, un obiettivo. «Questo è essere una squadra, signori miei» diceva Al Pacino nella famosa scena di "Ogni maledetta domenica". Per fortuna, se si sta attenti, in questa era di uomini soli al comando, qualche squadra la si trova ancora. E sarà proprio grazie a quelle squadre, grandi o piccole che siano, che rifiorirà la primavera.

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