mercoledì 6 febbraio 2013
Moldavia,1999 - Una vecchia costruzione nella campagna. Nel cortile razzolano delle galline. Sembra non ci sia nessuno. Ma il rumore delle nostre auto richiama le ricoverate dell'istituto di Hincesti: 230 bambine handicappate, lasciate qui da famiglie in miseria. Ci circondano ora: vestite di stracci, o rapate a zero, i piedi che inciampano in scarpe troppo larghe, ci fissano attonite. Per 230 bambine, 11 vecchie infermiere e un solo medico. Nei corridoi l'odore di urina toglie il respiro.L'ultima porta in fondo, è la camerata delle allettate. Una ventina di bambine immobili, mute, lo sguardo vacuo. Il medico francese di Médecins Sans Frontières che ci accompagna guarda le pupille: Valium, dice. Sono tutte sedate.Sotto le lenzuola le gambe scheletriche, la pelle diafana di chi non vede mai il sole. Una per un istante però ci fissa, con uno sguardo lucido. Mi avvicino. Come si chiama? domando a un'infermiera. «Non hanno un nome, le pazienti di questo reparto, non le chiamiamo per nome», traduce l'interprete.Nemmeno un nome. Gli occhi delle bambine di Hincesti mi inseguono ancora; e quello sguardo, che per un attimo, vivo, ci ha cercato. Nemmeno un nome. O è il nome stesso di Cristo, che ciascuna di quelle bambine porta addosso? Nell'eterno scandalo del dolore innocente.
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