Monika Bulaj: «Vi racconto il mio viaggio nel cuore del mondo»

Esploratrice e giramondo, la fotografa studia da 40 anni il “nascosto” della Terra alla ricerca di storie di minoranze etniche
May 26, 2025
Monika Bulaj: «Vi racconto il mio viaggio nel cuore del mondo»
Monica Bulaj in Sierra Leone
Instancabile ricercatrice e viaggiatrice nelle culture e nelle religioni del mondo, da quarant’anni Monika Bulaj attraversa gli angoli del globo meno illuminati dai riflettori mediatici per portare alla luce le storie di minoranze etniche e raccontarle con parole e immagini potentissime. Dall’Afghanistan al Caucaso, dall’Hindu Kush agli Urali, da Haiti a Gerusalemme, incontra le minoranze e vive con loro, per poi raccontarle. Ha all’attivo collaborazioni con i principali quotidiani e riviste del mondo (tra cui National Geographic, The New York Times, The Guardian) e un centinaio di mostre fotografiche, oltre a numerosi volumi di reportage letterario e fotografico, molti dei quali sono diventati anche narrazioni teatrali che lei stessa interpreta portando in scena con grande forza espressiva le sue storie e immagini.
Perché ha scelto di fotografare la spiritualità nel mondo, com’è nata questa sua ricerca?
La mia ricerca è partita dagli studi che ho fatto in passato e che continuo a fare tuttora: è un percorso ininterrotto, che ha una sua coerenza ed è sempre in divenire. Sono partita dagli studi di teologia bizantina, poi ci sono stati quelli di spiritualità ebraica, in particolare sul chassidismo, e con il tempo, già durante l’università, ho cominciato ad approfondire anche il sufismo e i culti di possessione. Svolgevo queste ricerche simultaneamente ad altri lavori che mi portavano a contatto con il teatro, e per un certo periodo mi sono pagata i viaggi di ricerca danzando.
Dietro a questi suoi studi sulle religioni c’è un bisogno personale di risposte?
No, non è una ricerca personale: non sto cercando la religione perfetta o la migliore, ma è piuttosto un lavoro sull’umano, sul corpo, sulla tradizione, che in qualche modo il corpo imprigiona oppure conserva per secoli; sui luoghi sacri condivisi, sulle minoranze a rischio. Sto realizzando un grande, forse folle, atlante visuale delle minoranze a rischio, e in effetti tutta la mia ricerca è una specie di work in progress alla quale ogni anno aggiungo un pezzetto. A volte la declino in diverse storie, la declino anche in base alla Storia con la s maiuscola, e a quel punto la ricerca si inserisce nell’attualità che purtroppo attraversa anche le vicende di queste minoranze. È un lavoro sulle piccole e grandi religioni, all’ombra di guerre antiche e recenti.
Da cosa pensa sia scaturito questo suo desiderio di ricerca?
Da quello che ho vissuto da bambina nel mio paese, la Polonia: si sentiva il silenzio terribile di chi non c’era più, degli assenti, degli ebrei uccisi nella Shoah, ma anche il silenzio di una delle più grandi minoranze d’Europa, i Rom, che dello sterminio non parlano. Loro lo chiamano porrajmos, “il grande divoratore”, e in generale non lo raccontano per via di una tradizione antica che gli impone il silenzio sui morti. Così, quarant’anni fa, in Polonia ho iniziato una ricerca su una minoranza rutena chiamata Łemkowie, in italiano Lemki, che era stata distrutta dal comunismo dopo la Seconda guerra mondiale. E ho passato quindici anni a raccogliere le loro testimonianze: era una specie di necessità, di passione dietro alla quale c’erano i miei studi, tantissimi studi. Sentivo un forte senso del dovere nei loro confronti. La mia è una ricerca che si lega alla necessità, così come la interpretava Simone Weil.
Quando parla del suo lavoro si avverte una grande passione, unita a un senso di urgenza.
Sì, perché sono realtà che in molti casi stanno scomparendo. Ad esempio con i Lemki mi sono affrettata a raccogliere le parole degli anziani, che avevano conservato ancora quel sapore, quella bellezza di un mondo ormai distrutto dal regime comunista. Lo stesso mi è successo anni dopo, quando mi sono messa a cercare i sopravvissuti ebrei alla Shoah in Polonia. Così ho cercato di raccontare le storie dei sopravvissuti e di legare il racconto della mia terra ai loro: anche in questo caso c’era una grande fretta, perché avevo a che fare con gli ultimi testimoni che scomparivano.
Lei è anche giornalista e i suoi libri fotografici sono corredati dalle sue narrazioni dei viaggi e degli incontri fatti. Per lei è più importante raccontare o fotografare?
La scrittura per me è forse più importante della fotografia. Io nasco dalla parola, nasco dal racconto. Non voglio che le mie foto vengano ammirate per la loro bellezza o per la loro perfezione. Vorrei che suscitassero un dolore o un pensiero. Quindi cerco la perfezione, sicuramente, cerco questa intensità che mi fa quasi male e, quando la raggiungo, la uso. Ma dietro quelle immagini ci sono storie così potenti che bisogna raccontarle: per questo nascono i miei libri, per questo scrivo.
Che cosa le dà il contatto con le persone che incontra nei suoi viaggi di ricerca?
Innanzitutto non vado là per fotografare, e non è neanche importante fotografare: l’importante è esserci, incontrare le persone, fare in modo che si sentano bene con me e provino una sorta di nostalgia quando me ne vado. Viaggio tra i poveri, con i poveri, e gli devo tutto, sia l’ospitalità sia la generosità; è un enorme debito perché mi danno sempre tantissimo, anche solo proteggendomi. Quindi la mia fragilità è la mia forza. Parlo undici lingue, però capita che a volte non riesca a comunicare: magari trovo qualcuno che fa da interprete, altrimenti mi devo limitare agli sguardi, ai gesti. Eppure le persone in qualche modo percepiscono il mio atteggiamento, che non è quello della giornalista che va sul posto solo per confermare le sue tesi preconcette. Credo di essere diventata tutto quello che queste persone mi hanno dato, sono come una spugna che ha assorbito odori, incontri, pensieri.
Quale pensa che sia il suo scopo, la missione?
Sento il dovere di raccontare queste persone e questi luoghi lontani da tutto, queste piccole oasi di fede condivisa dove individui di diverse provenienze si ritrovano senza perdere la loro identità, dove spesso pregano assieme o sentono di appartenere a qualcosa di più grande di loro.

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