giovedì 24 febbraio 2011
Se voglio che la mia vita abbia un senso per me, bisogna che abbia un senso per gli altri.

Ha spaziato dalla poesia alla filosofia, dal romanzo alla sociologia, ma il suo nome è legato a una strana ricerca mistica "senza Dio", percorrendo le strade lampeggianti e oscure dell'eros e della violenza. Dagli scritti del francese Georges Bataille (1897-1962) estraiamo questa battuta che merita una riflessione, anche perché ha alla base uno dei temi fondamentali non solo per la religione, ma pure per la filosofia e la semplice esistenza umana, ossia il senso della vita. Interessante è la sua proposta: cercare «un senso per gli altri». La frase è passibile di una duplice applicazione. La prima è evidente: noi non siamo monadi sigillate, non siamo reclusi nel carcere dorato di un'anima bloccata a sua volta in un corpo. Siamo di natura aperti all'altro, sia esso il creato, oppure il prossimo, o Dio. Una grave malattia che purtroppo infetta non pochi adulti è l'«autismo» spirituale, che nasce dall'egoismo o dalla paura dell'altro e che acquista varie patologie degenerative (razzismo, odio, fobia, isolamento, avversione e così via).
L'unica medicina è quella dell'amore, dell'incontro, del dialogo, dell'apertura. Ma c'è un'altra accezione per la frase di Bataille. Bisogna che la nostra vita diventi espressione di un senso anche per gli altri, sia un segno di luce, si trasformi nel sale, nella fiaccola, nella città posta sul monte, per usare le celebri immagini del Discorso della Montagna di Cristo. È quella che si è soliti chiamare "testimonianza", l'esatto opposto di certe esistenze - anche di credenti - insipide, ingrigite, flaccide, appunto "insignificanti". Martin Luther King giustamente ammoniva il cristiano a non essere un semplice «termometro» che s'adatta alla temperatura ambiente, bensì un «termostato» che riscalda con la sua presenza un orizzonte spesso gelido e tenebroso.
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