domenica 15 febbraio 2004
Bisogna proprio dire che gli uomini sono riusciti a dare alle loro macchine agilità, forza ed energia, precisione di movimenti ed eleganza di linee, lucentezza e rapidità; ma una bella luce allegra, una voce cordiale che sia come l'espressione di un'anima, no. Il rombo dei motori è cupo, il suono fugace delle trombe d'automobile è un lamento, le sirene che chiamano gli operai al lavoro sono piene d'angoscia. Ma niente è più deserto e desolato, niente è più deserto di speranza, che i fischi dei treni" Fin da piccolo il fischio del treno che lacera una notte silenziosa è stato per me un segno inquietante ed emozionante. Ha, perciò, ragione ai miei occhi Achille Campanile, uno scrittore romano morto nel 1977 e noto soprattutto per il suo umorismo paradossale, quando evoca quel suono e lo collega al deserto, alla desolazione forse d'una partenza o di un'assenza. Ma la considerazione che egli fa nel suo libro Se la luna mi porta fortuna va ben oltre quel suono tutto sommato nobile e simbolico. Egli, infatti, prende di mira la nostra società fracassona, abituata al "rombo dei motori", ritenuto quasi un vessillo di civiltà. La macchina in tutte le sue tipologie è stata un po' il dio imperante a partire dall'Ottocento, espressione delle straordinarie potenzialità creative dell'uomo, un dio capace però anche di divorare i suoi fedeli: basti solo pensare alle ecatombi stradali o, peggio ancora, a quanta morte possono generare le macchine belliche. Ma Campanile fissa la sua attenzione soprattutto sul rumore triste e tristo che emettono le macchine, ora assordandoci ora inquietandoci.
Certo, non si può ritornare a un'era bucolica illusoria ma non si deve neppure essere adoratori del vitello di ferro della macchina.
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