Il cyberbullismo non esiste. Perché le parole sono importanti.
venerdì 24 marzo 2017
Il cyberbullismo non esiste. Lo so: detta così, suona un po' forte. Tanto più che non è assolutamente mia intenzione negare un fenomeno orrendo e diffuso. Ricominciamo da capo. Il cyberbullismo non esiste. Esiste il bullismo. Perché il "bullo" – e la definizione rischia persino di essere riduttiva rispetto al problema – è tale dentro e fuori la Rete.
Ciclicamente nel nostro linguaggio quotidiano si fanno strada definizioni straniere con le quali pensiamo (speriamo) di riuscire a definire – e spesso persino a circoscrivere – il problema che rappresentano. Gli americani le chiamano "buzzword"; in italiano il termine rende meglio: "parole di moda".
Fateci caso: per (re)inquadrare nella maniera migliore certi problemi, basta abbandonare certe "parole di moda", usandone altre più appropriate. Non "cyberbullismo" ma bullismo. Non "fake news" ma menzogne. Non "deep web" ma siti internet spesso illegali. Anche se il "web profondo" evoca nelle nostre menti luoghi bui e minacciosi, nella realtà è composto da server (i computer che ospitano i siti e i servizi internet) che, con una semplice stringa di comando, impediscono ai motori di ricerca di catalogarli. È solo questo a renderli "nascosti". Nella realtà sono spesso sugli stessi scaffali dove si trovano i server dei siti più innocui del mondo.
Forse uno dei primi passi che dovremmo fare per affrontare, usare e trasformare nel modo migliore il mondo digitale sarebbe quello di dare meno ascolto alle "parole di moda", concentrandoci di più sul loro reale significato. Prendete le fake news, cioè le menzogne. Non esistono da oggi e non esistono solo sui social o sul web. Ma mentre pronunciamo quelle due parole – "fake" e "news" – ci illudiamo che il problema sia solo digitale. E che quindi basterebbe spegnere tutto per vivere in un mondo più felice.
Purtroppo le tecnologie spesso amplificano ciò che esiste già. Ma anche se può non piacerci, le nostre vite sono legate a doppio filo con il mondo digitale. Per questo occorre educare ragazzi e adulti (soprattutto i genitori) a diventare cittadini digitali. Prima ancora di insegnare loro ad usare "tecnicamente" gli strumenti digitali, dovremmo insegnare loro le "regole" del vivere civile anche sul digitale.
Per capire quanta strada abbiamo davanti, partiamo da un gesto quotidiano, quasi banale: far parte di un gruppo WhatsApp. Non c'è praticamente mamma di uno studente delle elementari o delle medie che non sia stata invitata a fare parte di quello di classe. Solo che nessuno ha insegnato agli iscritti che un gruppo WhatsApp non va usato come quando si manda un messaggio ad una persona sola. Così, ogni volta che un genitore spedisce al gruppo un semplice "ciao", il risultato sono 10, 20, 30 messaggi di risposta che contengono a loro volta un "ciao". E così via. A ogni messaggio, risposte multiple. Chi ha scritto e chi ha risposto voleva solo essere gentile, ma il risultato sono 10, 20, 30 squilli (in tempi diversi) sul cellulare di ogni iscritto, con relativi messaggi a volte superflui. Così, uno strumento utile a comunicare si trasforma spesso in un inferno e una scocciatura.
La colpa è nostra. Ci ostiniamo a usare le tecnologie senza prima riflettere su come usarle in maniera corretta. Eppure basterebbe iniziare da una semplicissima regola: non diventare con le nostre azioni digitali fonte di "inquinamento" delle vite altrui. In fondo, vale nel mondo analogico come in quello digitale. O no?
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