Chiara Ferragni, gli Uffizi e il senso dell'influencer
venerdì 24 luglio 2020
È più forte di noi: appena sentiamo la parola influencer abbiamo due reazioni. C'è chi boccia senza appello ogni cosa che fanno, perché li ritiene dei mediocri, diventati famosi senza alcun merito. All'opposto c'è chi esalta e gonfia ogni loro gesto, raccontandoli come dei supereroi capaci di azioni quasi miracolose.
Reazioni entrambi sbagliate. Non solo perché i veri influencer sono diventati tali lavorando moltissimo (e continuano a faticare 7 giorni su 7 per restare famosi). Ma soprattutto perché ciò che fanno ci apre le porte di un mondo che può non piacerci ma che è enorme. Sta a noi decidere se provare a studiarlo, magari per trovare domani forme di dialogo (come ha fatto don Alberto Ravagnani con Fedez su Instagram) o chiudere la porta e rintanarci nelle nostre stanze facendo finta che tutto questo non esista e continuando a vivere nelle nostre «zone di conforto».
Anche considerare gli influencer una sorta di supereroi è un errore. E solo in Italia la foto di Chiara Ferragni agli Uffizi può produrre oltre 4 milioni e mezzo di pagine digitali (avete letto bene: 4 milioni e 500 mila pagine!), con articoli, post, tweet, foto e commenti più o meno profondi.
A ben vedere il valore di un influencer sta proprio qui. Non nel fatto di avere aumentato del 27% gli ingressi agli Uffizi nel target under 25 (tanto più che secondo lo storico dell'arte Tomaso Montanari, «negli stessi giorni i Musei Vaticani e il Colosseo hanno fatto meglio e senza aver invitato influencer: +41% e + 38%»). Ma nell'avere rilanciato gli Uffizi in oltre 4 milioni e mezzo di pagine digitali.
Pensateci, perfino le decine di post con fotomontaggi apparsi su Facebook, con Chiara Ferragni non davanti alla Venere di Botticelli ma in paesini del Sud, a tifare per squadre minori di volley o all'ingresso della sede del Pd ci dicono qualcosa di molto preciso: tutti noi vorremmo un influencer supereroe capace di risollevare solo con la sua presenza le sorti di ciò che abbiamo a cuore. Eppure, sono decenni che ovunque vengono ospitati piccoli e grandi vip, che si prestano ad aprire una bottiglia di spumante, a farsi fotografare con il padrone di un ristorante o di una pizzeria, alla sagra del paese o a fare la foto con un assessore in cambio di vitto e alloggio. La differenza è che stavolta la star di turno arriva dal mondo digitale e ha un definizione nuova: «influencer».
Poi c'è la nostra invidia e la nostra fatica a capire perché certe persone possano guadagnare cifre astronomiche facendo un post su Instagram. Già, com'è possibile che l'attore americano Dwayne Johnson, con oltre 187 milioni di follower, guadagni più di 1 milione di dollari per ogni post sponsorizzato? Stesso discorso per la numero due, Kylie Jenner, che con 181 milioni e mezzo di follower guadagna 986.000 dollari per post, e per il calciatore della Juve Cristiano Ronaldo, che si piazza terzo nell'hit parade mondiale degli influencer più pagati con 889mila dollari a post.
Per la cronaca, al 1° posto degli influencer italiani c'è Chiara Ferragni, che però nella classifica mondiale di Hopper HQ occupa il 65° posto (l'anno scorso era 43esima). Per sponsorizzare un prodotto sul suo profilo le aziende arrivano a pagare 59.700 dollari a post.
Davanti a queste cifre, è facile capire come mai molti ragazzi sognino di fare gli influencer. Ciò che nessuno spiega loro è che 1 su un milione ce la fa a diventare famoso, e per arrivarci fatica e spende tantissimo. E fatica e spende ancora tantissimo per restare ogni giorno sulla cresta dell'onda del successo.
Indignarsi per tutto questo serve a ben poco. Molto più invece può servire raccontare ai ragazzi tutta la realtà degli influencer. E soprattutto quella delle migliaia di ragazze e ragazzi che si credono influencer e non lo sono e che un pugno di mi piace o per un weekend in un hotel svendono se stessi sui social.
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