Africa, la fabbrica dei «prescelti»
mercoledì 6 marzo 2019
Scrivo da Nairobi, dove sono venuto, su richiesta dalla Federazione Mondiale di pallavolo, a tenere un seminario di alta specializzazione per i coach del continente africano. Mi sono portato, proprio per poterlo leggere qui, un saggio uscito pochi giorni fa: "Fuori casa" di Sebastian Abbot, pubblicato dalla Luiss University Press. Il mio incarico è quello di portare conoscenze e strumenti di sviluppo per l'enorme potenziale che la pallavolo africana possiede, mentre il progetto raccontato nel saggio di Abbot si chiama Football Dreams ed è stato fortemente voluto, a partire dal 2007, dal Qatar con il preciso scopo di visionare ogni anno mezzo milione di ragazzini tredicenni africani aspiranti calciatori. Avete letto bene: mezzo milione di tredicenni ogni anno, con l'obiettivo di sceglierne una ventina da portare nell'avveniristica Aspire Academy di Doha e farli diventare stelle del calcio mondiale.
Lascio da parte, volutamente, gli aspetti economici e geopolitici di questo progetto perché mi interessa di più la toccante rappresentazione delle periferie africane, da un punto di vista più antropologico che sportivo. Una struggente raccolta di sogni, desideri, di storie che Abbott racconta, dei pochissimi che ce l'hanno fatta e dei tantissimi, i cui sogni sono stati spezzati. Tutte le storie sono viaggi e leggere alcune pagine proprio qui mi ha permesso di immergermi fino in fondo agli sguardi, alle speranze, alle attese. Muovermi per le strade di questa città, pur considerando che il Kenya non è terra di calciatori, ma di corridori, mi ha regalato un punto di vista inatteso. Tutti i viaggi hanno un punto di partenza, solo qualche viaggio, tuttavia, ha un punto di arrivo. Il punto di partenza delle storie raccontate da Abbot è nel cuore dell'Africa dove milioni di ragazzini giocano a pallone, tutti i giorni, dove possono e come possono.
È bello vedere una partita di pallone qui: spesso si gioca scalzi e si evita il colpo di testa perché il pallone è talmente duro che si potrebbe svenire. C'è sempre pubblico, stipato a bordo campo, magari sotto a una tenda dove i più anziani possono godere di un po' di ombra. Non sai bene per chi tifare perché molti giocano a petto nudo e riconoscere le squadre è difficile, ma qualche volta fra il pubblico c'è un bianco che arriva da lontano e tutti giocano meglio. Perché il bianco è lì per cercare il talento. Alla fine, il bianco, il talento lo trova sempre tra la polvere di un campo di terra bruciata dal sole e con le porte arrugginite. Solito rituale: inglese o francese da manuale del viaggiatore, si avvicina all'eletto e si presenta. Il prescelto, l'unto dal dio bianco del calcio, non ci pensa troppo su: lascia la casa e la famiglia e va dove gli dicono di andare.
Per tutti quelli che partono ci sono un padre, uno zio, un nonno che dicono: «Non dimenticarti da dove vieni, figliolo. Gioca bene al football. Rispetta il tuo allenatore. Fai tanti gol. Quando sarai ricco ricordati della tua famiglia. Prega sempre, va' d'accordo con i tuoi compagni bianchi, sii generoso con i nostri fratelli neri, ma fra tutte queste cose la più importante è quella di ricordarti da dove vieni e che sei partito da questa baracca di alluminio, da questo campo di terra bruciata, da quei pali arrugginiti».
Ogni volta che qualcuno parte c'è un allenatore che raduna i suoi atleti in cerchio e dice: «Tu sei colui che aprirà la via, la speranza dei tuoi compagni. Ragazzi pregate per lui, senza chiedervi perché lui sì e voi no. Lui è il prescelto, traccerà la via. Fai tanti gol e porta ovunque, con onore, il nome del tuo Paese».
Di tutti quelli che partono, pochissimi fanno tanti gol. Molti torneranno e saranno i principali indiziati a dover, un giorno, raccogliere in cerchio i propri atleti e dire a un eletto di turno: «Tu sei colui che aprirà la via».
Ho visto una partita di pallone, ieri l'altro. Dei ragazzi giocavano su un prato fuori dallo stadio principale di Nairobi, all'interno del Moi International Sports Center. Sopra di loro, sul tetto dello stadio, giganteggiava una scritta: "The home of heroes".
Si stima che in tutto il sistema delle accademie calcistiche, indicativamente, siano meno di uno su diecimila (calcolando solo quelli selezionati) i ragazzi che, in qualche modo, ce la fanno.
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