In un tempo che non sa più tacere

La parola è così arma, la più potente, con cui uccidiamo non solo l’Umano. Ma nelle pieghe della storia tante piccole voci di verità non cessano di risuonare
October 28, 2025
In un tempo che non sa più tacere
In principio è il logos. Oggi, invece, è “la babele”. Viviamo un tempo che non sa più tacere: tutto parla e poco dice. Le parole scorrono inarrestabili come un fiume in piena crescente. Ma, spesso, sono aride di senso. Prive di pensiero. Troppe volte illudono, confondono, ingannano, feriscono. Finanche uccidono: nel corpo, nella mente e nello spirito. Immersi nella fluidità liquida, soggiogati dalla cultura della post verità e sopraffatti da una logomachia perenne e totalizzante, è come se avessimo disimparato la lingua dell’essenziale. Si avvera la "profezia” di Dostoevskij: l’uomo che uccide la verità per non inginocchiarsi davanti a niente, finisce – poi – per inginocchiarsi davanti al nulla.
È la nuova religione dell’insignificanza. Ben oltre il nichilismo e il relativismo, di cui, peraltro, abitiamo la scia inquinante. La verità non è più negata o contraddetta, ma dissolta. Accumuliamo parole che si consumano senza soluzione di continuità, per poi decomporsi irrimediabilmente come neve al sole. L’avvento dell’intelligenza artificiale, applicato alla società dei media, ha moltiplicato (e sempre più moltiplicherà in futuro) questo fenomeno. La potenza degli algoritmi rischia di accrescere esponenzialmente (ed irrimediabilmente) la nostra insipienza. Nel World Economic Forum (WEF) Global Risks Report 2024, la disinformazione e la generazione di contenuti falsi mediante IA (AI-fueled misinformation) sono state indicate come il rischio più grande nel breve termine (prossimi due anni) da oltre il 50 % degli esperti intervistati. Produciamo quantità illimitate di concetti falsi ed effimeri. Un contributo del National Telecommunications and Information Administration (NTIA) sui rischi dell’IA menziona che «se i dataset utilizzati per addestrare sistemi IA sono compromessi da disinformazione o bias, i sistemi IA replicheranno e perpetueranno questi difetti in futuro». Si tratta di un problema esteso: riguarda il giornalismo, la ricerca, la politica, la formazione. Ed ogni altro ambito. È come se stessimo alimentando un processo dove le “scorie semantiche” non solo circolano, ma vengono addirittura integrate nelle basi di conoscenza (o nei feed algoritmici) dell’IA. Mestatori artificiali, li chiamerebbe Eco. Queste scorie avranno bisogno di secoli per essere smaltite. Stiamo avvelenando il domani: non solo quello fisico, ma anche quello semantico, quello dell’immaginazione, quello della verità. Stiamo progressivamente slittando dal pensiero sapienziale al pensiero funzionale, dal pensiero autentico al pensiero apparente. Dal principio intrinseco di verità alla improvvisazione dialettica, dall’autorità cognitiva alla correlazione statistica. Ogni conoscenza, svuotata del suo peso, rischia di farsi leggera come una bolla. Brillante ma inconsistente. E il mondo, gonfio di parole vuote, finirà per galleggiare sterilmente nel nulla: un nulla epistemologico, ontologico e, infine, inevitabilmente, soteriologico. Senza principio e senza fine. Si intravede l’avvento di una nuova soglia antropologica. La potremmo chiamare società vacua: una civiltà che si logora e si corrode nel suo stesso linguaggio, fino a dissolversi e scomparire nell’evanescenza (del significato e non solo).
Le iniziali dell'Intelligenza artificiale davanti a una scheda madre di pc / Reuters
Le iniziali dell'Intelligenza artificiale davanti a una scheda madre di pc / Reuters
La parola è così arma. La più potente. Con essa uccidiamo non solo l’Umano ma anche (e soprattutto) la verità che dovrebbe guidarlo. «La lingua uccide più della spada» ci ricorda il Siracide. E, poi, ancora che «Dio ha dato all’Uomo la parola, la legge e la ragione». Non per distrarlo, né per confonderlo – o per confondere gli altri – ma per costruire, per partecipare al mistero della creazione, per essere egli stesso co-creatore. Perché la parola non è ornamento: è fondamento. È il primo strumento con cui l’Uomo plasma il mondo, come un artigiano che modella la creta. La parola non è semplice segno: è un campo di forze. Un universo di possibilità interpretative, una scintilla di storia possibile. Nel bene e nel male. Gli antichi retori lo testimoniarono già. Quando Gorgia parlava della parola come di un krátos, un potere capace di guarire o avvelenare. E la filosofia contemporanea lo ha confermato. Con Wittgenstein abbiamo scoperto che i confini del linguaggio coincidono con i confini del nostro mondo: dove la parola non arriva, la realtà resta muta. E con Heidegger sappiamo che la lingua è la “casa dell’essere”, il luogo in cui l’Uomo abita l’Essere stesso.
La parola non è mai neutra o innocente, quindi. Essa vive nella polisemia. Costruisce la realtà. E allo stesso tempo la interroga. Ogni parola detta è una scelta morale. Dietro ogni parola c’è un atto di responsabilità (“dire la verità”) e di fiducia (“credere che l’altro sia disponibile ad ascoltare la verità”). Nel Vangelo di Matteo è detto che «Di ogni parola vana gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio». Di ogni parola! È la sentenza più moderna mai scritta: la responsabilità del dire. Se ci fermassimo anche solo un istante a meditarla, comprenderemmo la sua tremenda attualità: in un’epoca che parla senza pensare, ogni parola vana è una colpa collettiva. È lo stigma del tempo che stiamo vivendo. Orwell, in “1984”, racconta perché il linguaggio tradito (frutto della “neolingua” e del “bipensiero”) è lo strumento supremo del potere. Le guerre ed i drammi che ci affannano nascono da esso. Dalle parole falsificate e dalle verità manipolate. Le crisi socioeconomiche, ambientali, geopolitiche e democratiche ne sono il frutto. Le distopie tecno-plutocratiche ne costituiscono il naturale ulteriore innesto. Le parole vere generano vita. Le parole false producono morte.
È tutto irrimediabilmente perduto? Certo che no!
Nelle pieghe della storia tante piccole (ma possenti) voci di verità non cessano di risuonare, tessendo dal basso una fitta trama di sapienza e di fiducia. È la voce degli ultimi. È la voce dei piccoli. È la voce di chi si riconosce creatura. È la voce dei senza voce. Perché, è vero: i superbi saranno dispersi nei pensieri del loro cuore. Ma gli umili saranno innalzati. Sono loro che guidano la Storia. Il resto è volume (superfluo). C’è speranza, dunque. C’è salvezza. Riscopriamoci ultimi con gli ultimi, piccoli con i piccoli, umili con gli umili, dunque. Solo così torneremo ad abitare il mondo come autori e non come spettatori passivi. La parola, infatti, è più che un segno: è presenza. È il luogo in cui il mistero si fa accessibile e l’invisibile prende forma. Non è solo linguaggio, ma teofania: l’atto con cui il divino si manifesta nel tempo, senza cessare d’essere eterno. Non un’astrazione, ma una rivelazione incarnata. Evento. Incontro. Segno ed epifania. Relazione e rivelazione.
In essa l’Uomo riconosce la propria radice e la propria misura. La parola, sospesa tra ambiguità e incarnazione, si rivela allora come “atto sacro”: il suo tempio è il silenzio, il suo grembo è l’ascolto. La sua sorgente è la verità. Ogni parola vera riavvicina l’Uomo a ciò che lo supera; ogni parola vana lo separa da esso e dal mondo. Siamo, dunque, chiamati (urgentemente) a riconciliare parola e verità. La parola può e deve essere sempre nitida, esemplare, penetrante, senza macchia, tersa, inoffensiva, amante del bene, acuta, libera, benefica, amica, stabile, sicura, precisa, fulgida, appropriata, vera, performativa. Luogo di redenzione. Luogo di riconciliazione. Del falso con il vero. Della nozione con il sapere. Della scienza con la sapienza. Del finito con l’infinito. Dell’immanenza con la trascendenza. Perché, senza riconciliazione non esiste vera Umanità. Senza vera Umanità non c’è vita. Senza vita non c’è futuro.
Ed è forse questo, in definitiva, il compito di ogni bravo Armonauta – e con esso, dell’Uomo contemporaneo, smarrito nella moltiplicazione delle voci e nella rarefazione del senso: tornare a dire parole vere, che sono e che fanno essere. Affinché – prendendo a prestito l’esclamazione della vedova di Zarepta – di ogni persona si possa dire: «Ora so che la parola vera è sulla tua bocca».

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