Il capolavoro di Jafar Panahi tra folli violenze e magnanimità
Jafar Panahi Un semplice incidente - Iran/Francia/Lussemburgo 2025 102 minuti
L’ultimo lavoro di Jafar Panahi (Palma d’oro a Cannes) conta tra i suoi meriti la frontalità con cui i temi vengono affrontati. Un film che possiede la forza morale di un apologo, muovendosi sul piano dell’allegoria ma senza mai allentare la presa dalla realtà pensata come territorio di continue ambivalenze. Succede con le vere opere d’arte: si riemerge da questa visione abitati da un bisogno di silenzio.
Riflettere, lasciar sedimentare la complessità. Perché Un semplice incidente è apologo sì, ma sgombro da dettami, se non quello dell’attenzione al dolore umano davanti al sopruso, e della perennità della memoria a fronte di traumi che nessuna nuova oscurità o chiarezza potrà medicare davvero. Con assoluta maestrìa, Panahi ci spinge a capofitto in una storia irta di colpi di scena, ombre, ritrovamenti, dubbi assillanti, assunzioni di responsabilità, dolori incancellati, nuove alleanze umane, ruggini e ferite dalle impossibili cicatrici, e tutto nella cornice del balbettante ritorno alla vita di donne e uomini che hanno subìto torture fisiche e psicologiche da parte di aguzzini del loro stesso Paese. La saldissima tenuta di un racconto drammatico non privo di momenti quasi divertenti conduce lo spettatore a oscillare funambolicamente lungo il filo teso di un interrogativo ininterrotto. Dov’è il male, e come agire quando le ferite nell’anima non si rimarginano, mai potranno? Dove il senso della vendetta, se rifarsi dell’odio subìto vuol dire alienarsi?
«Non seppellire i tuoi ideali», dice un amico bibliotecario consultato dal protagonista (Vahid Mobasseri), lui che di mestiere invece è meccanico, e che per via di un “semplice incidente” fronteggia un fatto e una tempesta emotiva troppo più grandi di lui. Il filo del racconto continua a tendersi sino a venti minuti finali di una intensità che lascia stremati. Un finale di grande cinema, per il limpido coraggio con cui arriva a parlarci dell’umano – della violenza come storia che si ripete, di riscatti sempre in bilico tra rivalsa e magnanimità. Non visto, un cane viene investito da una macchina all’inizio del film, innescando una trama magnetica per ritmo e spessore morale; verso la fine, un cerbiatto viene invece schivato. Tra i due animali innocenti, l’arco di una parabola che dal male al bene disegna la vita etica. Uccidere o salvare; nel mezzo, un dolore che non finirà, ricordi che non si cancellano, pietà che non ripara ma lascia fluire la vita. Perdono o castigo, passato che non passa, pagare ogni debito senza che i conti tornino, o si facciano mai. Un apologo dove l’allegoria non è traslata, perché il male trova figura, in corpi, voci, supposizioni, reazioni. Mentre le ombre più scure del regime iraniano in cui Panahi ci fa addentrare, ecco ci parlano di altre ombre, altre violenze, e guerre, e soprusi, e pietà, e segni sull’anima che non vanno via. Come potrebbero.
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