Stallo alla Consulta, serve un colpo di reni
Giovedì 13 il Parlamento è convocato in seduta comune nell’ennesimo tentativo di eleggere i giudici costituzionali che mancano al plenum della Corte. La riunione del 14 gennaio non ha prodotto nulla e quelle previste per il 23 e il 30 gennaio non si sono proprio tenute. Le malelingue riferiscono che qualcuno ha accolto con sollievo l’impasse parlamentare collegata con il caso Almasri perché di fatto ha rinviato di un paio di settimane l’irrisolta questione della Consulta. Di sicuro c’è che il collegio della Corte è incompleto dal novembre 2023, quando è terminato il mandato dell’allora presidente Silvana Sciarra, e che nello scorso dicembre sono scaduti altri tre giudici. I gruppi politici rappresentati nelle Camere non sono ancora riusciti a perfezionare l’accordo necessario per provvedere alla bisogna (il quorum richiesto è di tre quinti). Dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare è rimasto in carica soltanto uno, Luca Antonini, eletto nel luglio del 2018 (il mandato dura nove anni, più di quello del Capo dello Stato). Il ritardo nelle procedure di nomina, a dire il vero, non è una novità. Nel caso dello stesso Antonini ci vollero venti mesi. Ma la situazione che si è determinata ora non ha precedenti nella storia della Consulta. L’equilibrio compositivo messo a punto dai padri costituenti – cinque membri designati dal Presidente della Repubblica, cinque dal Parlamento e cinque dalle alte magistrature, tutti con particolari requisiti in campo giuridico –
risulta gravemente alterato. La componente di origine parlamentare è ridotta ai minimi termini e le Camere fanno una pessima figura, per di più in una fase storica in cui il loro ruolo nel processo legislativo è soverchiato da quello del governo e mentre si discute animatamente dei rapporti di forza con la magistratura, fino al punto di ipotizzare la riapertura del capitolo immunità, autentico tabù della politica nostrana. Intanto però deputati e senatori non riescono a nominare i quattro giudici costituzionali. Verrebbe da sperare in un colpo di reni concettualmente analogo a quello che dieci anni fa portò alla rielezione di Sergio Mattarella. La trattativa, invece, appare rigidamente nelle mani dei capi dei partiti che però – si scusi il gioco di parole – sembrano aver smarrito l’attitudine alla trattativa, la capacità di una mediazione che non è “melina” fine a sé stessa, ma costruzione paziente e creativa, orientata al miglior risultato possibile. Questa mancanza pesa sistematicamente nella politica odierna (non solo italiana, purtroppo) e lo si vede in modo macroscopico tutte le volte che ci si confronta con la prospettiva delle riforme istituzionali, l’ambito in cui per definizione si dovrebbe pensare largo e trasversale. È un problema enorme che certamente non si può risolvere di qui al 13 febbraio, quando il Parlamento tornerà a riunirsi per l’elezione dei giudici. Ma in quest’ultimo caso non si tratta di cercare un’intesa di portata epocale, quanto di ottemperare a un preciso dovere istituzionale, assicurando il corretto funzionamento – o il funzionamento tout court – di un organo costituzionale decisivo: gli undici membri residui della Consulta sono il minimo per poter deliberare, al di sotto c’è la paralisi. Un esito che non dev’essere neanche possibile immaginare come rischio. © riproduzione riservata
risulta gravemente alterato. La componente di origine parlamentare è ridotta ai minimi termini e le Camere fanno una pessima figura, per di più in una fase storica in cui il loro ruolo nel processo legislativo è soverchiato da quello del governo e mentre si discute animatamente dei rapporti di forza con la magistratura, fino al punto di ipotizzare la riapertura del capitolo immunità, autentico tabù della politica nostrana. Intanto però deputati e senatori non riescono a nominare i quattro giudici costituzionali. Verrebbe da sperare in un colpo di reni concettualmente analogo a quello che dieci anni fa portò alla rielezione di Sergio Mattarella. La trattativa, invece, appare rigidamente nelle mani dei capi dei partiti che però – si scusi il gioco di parole – sembrano aver smarrito l’attitudine alla trattativa, la capacità di una mediazione che non è “melina” fine a sé stessa, ma costruzione paziente e creativa, orientata al miglior risultato possibile. Questa mancanza pesa sistematicamente nella politica odierna (non solo italiana, purtroppo) e lo si vede in modo macroscopico tutte le volte che ci si confronta con la prospettiva delle riforme istituzionali, l’ambito in cui per definizione si dovrebbe pensare largo e trasversale. È un problema enorme che certamente non si può risolvere di qui al 13 febbraio, quando il Parlamento tornerà a riunirsi per l’elezione dei giudici. Ma in quest’ultimo caso non si tratta di cercare un’intesa di portata epocale, quanto di ottemperare a un preciso dovere istituzionale, assicurando il corretto funzionamento – o il funzionamento tout court – di un organo costituzionale decisivo: gli undici membri residui della Consulta sono il minimo per poter deliberare, al di sotto c’è la paralisi. Un esito che non dev’essere neanche possibile immaginare come rischio. © riproduzione riservata
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