I partiti della maggioranza tornano alla carica per modificare la legge sull’elezione dei sindaci, abolendo di fatto il doppio turno. Tale sarebbe infatti l’effetto pratico della riduzione dal 50 al 40% della soglia per l’elezione diretta nella prima tornata. Già in passato erano stati fatti analoghi tentativi in questo senso, ma stavolta l’iniziativa è politicamente qualificata perché il disegno di legge presentato al Senato (un unico articolo, ora all’esame della prima commissione) reca le firme dei quattro capigruppo. Non è un ddl del governo, tecnicamente parlando, ma della maggioranza sì. L’elezione diretta dei sindaci è stata introdotta in Italia con la legge 81 del 1993, frutto della grande stagione referendaria e di un’apertura al rinnovamento della politica di cui oggi si sente drammaticamente la mancanza. È una legge che in oltre trent’anni di applicazione ha funzionato bene e che ormai è entrata nel costume elettorale degli italiani. Che motivo c’è di cambiarla, per di più andando allo scontro con le opposizioni parlamentari che già sono pronte alle barricate? Il motivo vero è noto a chiunque segua con un minimo di attenzione e di continuità le vicende politiche italiane, e cioè la convinzione del centro-destra che il doppio turno finisca per avvantaggiare lo schieramento opposto. Secondo questa tesi il centro-sinistra fatica a compattarsi nella prima tornata mentre riesce a farlo più agevolmente nel ballottaggio. Il che ha un fondamento di verità, ma fino a un certo punto: basta chiedere ai cittadini di Matera che una settimana fa hanno eletto sindaco nel secondo turno il candidato del centro-destra che al primo era rimasto molto indietro rispetto al suo competitore. Comunque una considerazione di mera convenienza politica non può essere l’argomento decisivo per modificare sostanzialmente e unilateralmente una buona legge in una materia delicata come quella elettorale. Nella relazione che accompagna il ddl, i promotori si soffermano piuttosto su altri aspetti della normativa attuale e indicano in particolare come problematico il seguente: «Nella maggioranza dei casi, al secondo turno si rischia di eleggere un candidato sindaco che abbia ottenuto meno voti di quelli raggiunti dall’avversario al primo turno». Si citano a questo proposito i precedenti di Campobasso (2024) e di Udine (2023). Ma su 147 elezioni comunali che si sono svolte dal 1993 nei capoluoghi di Regione (i conti li ha pubblicati il costituzionalista Salvatore Curreri) i casi veramente pertinenti sono soltanto 6, troppo pochi per ricavarne un difetto strutturale delle regole in vigore. Un altro profilo tutto da discutere è l’attribuzione del 60% dei seggi alle liste collegate al sindaco eletto, senza l’indicazione di una soglia minima come avviene invece in Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, le due Regioni a statuto speciale che hanno già adottato il 40% per il primo cittadino e che i presentatori del ddl portano ad esempio nella relazione di accompagnamento. Qui il rischio è che le liste collegate al sindaco ottengano un premio di maggioranza abnorme, tanto più che con il voto disgiunto non è assicurato neanche che tali liste raggiungano la quota di consensi del sindaco medesimo. E in ogni caso, anche se le liste arrivassero al 40%, un premio del 60% parrebbe decisamente oltre i limiti indicati finora dalla giurisprudenza costituzionale.
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