I refusi mi perseguitano da sempre. Leggo e rileggo gli articoli prima di consegnarli, passo al setaccio le bozze, ma non c’è niente da fare: un errore, almeno uno, rimane lo stesso, e non di rado in bella vista. In uno dei primi libri a cui avevo lavorato, per esempio, avevo sbagliato a trascrivere la citazione messa in epigrafe, aggiungendo un punto interrogativo di troppo, che rendeva poco perspicuo il senso della frase. Me ne ero lamentato per e-mail con il signor Kenobi, il quale si era detto rammaricato: sapeva quanto tenessi a quel testo, di cui avevamo perfino discusso nei nostri scambi.
Gli sembrava interessante, osservava, che l’inciampo coinvolgesse quel particolare segno di punteggiatura. «In questo momento – mi scriveva – lei pensa “ho davvero fatto un grosso sbaglio”, ma se prova con il punto interrogativo il senso cambia. Chiedersi “ho davvero fatto un grosso sbaglio?” non significa assolversi, né comportarsi in modo trascurato. Credo che la sua scrittura stia cercando di dirle qualcosa». Rimasi stranamente turbato da questo ragionamento, con il quale il signor Kenobi pareva abdicare al suo consueto rigore. Ma da allora, quando rileggo i miei articoli, guardo ai refusi con maggior simpatia. Sono una parte di me, il mio limite, forse la mia scheggia di saggezza.
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